Il ponte

Il ponte
Quadro di Enzo De Giorgi

sabato 24 aprile 2010

Rote Sterne




Kata Tjiuta

Kata Tjiuta è il nome con cui viene indicata la figura dello Sciamano dagli aborigeni australiani. La traduzione suona come “ Molte Teste” e sta ad evidenziare la capacità dello Sciamano di racchiudere in sé tante coscienze, la sua e quella dei progenitori, caratteristica che gli consente di avere e mantenere il ruolo di guida spirituale e punto di riferimento, per sé e il suo popolo. Che gli assegna il compito di trasmettere il suo sapere agli iniziati, e garantirsi così la sopravvivenza, la possibilità di poter morire senza mai perire. Mi vien fatto di pensare che un uomo davvero libero è colui il quale riesce ad essere Sciamano a sé stesso, ed iniziato egli stesso. Colui che fa del passato uno strumento con il quale costruirsi un futuro, che assorbe l’esperienza trasmessagli e quella esperita in prima persona, che si affranca dall’appartenenza intesa come vincolo irrisolvibile verso il cambiamento. Colui che tiene presente il passato come non mutabile, certo, ma sicuramente mutuabile nel presente. Il passato quale àuguro di un presente e un futuro con connotazioni proprie, a loro volta mutuabili nel futuro di sé.



“Rote Sterne, weisse wine”


…e solo i “pazzi” sono in grado di dare davvero amore non mediato dalle convenzioni dei rituali. I “pazzi”, l’unica categoria rappresentata da individui davvero tali, non omologabili, uomini sovente ghettizzati e etichettati, per la convenienza a la salvaguardia delle coscienze dei “normali”, che non sono poi certo lo siano affatto. Io, un “pazzo”, uno di loro, uno “fuori”, nel senso di oltre, al di là, in una dimensione diversa, in un nuovo luogo dove siamo tutti armoniosamente soli insieme. Dove la consapevolezza della solitudine diventa valore inestimabile, e ci permette di scambiare, in un baratto ideale, le nostre più grandi ricchezze, le nostre emozioni.
Io, perso nei miei pensieri, sospeso fuori dalla finestra, che guardo dentro, dove tutti i “non folli” si arrabattano alla ricerca di una uniformità impossibile e irrealizzabile, perché non naturale, e si battono, e inventano mille nuovi assiomi, che lo sono solo per loro che necessitano di guide scritte, spesso da altri, forse perché incapaci di trovarne dentro di sé. Pagani inventori di un dio unico per tutti, e invece dio è unico solo per me, ed è diverso dal dio unico solo per te, e questo li rende uguali, semplicemente perché ugualmente diversi. E penso…solo i “pazzi”, quelli capaci di continuare a credere fino alla fine, quelli capaci con un sorriso di dare sé stessi completamente, un sorriso pieno di dolore, di malinconia. Capaci di dirti :”ehi, guarda che ci sono anche io in questo deserto, ma non per questo lo rendo meno deserto per me, ne’ per te”. Un deserto e il suo calore, un deserto fatto di anime arse dal fuoco fioco delle relazioni dovute e non sentite. Assorto dentro i miei pensieri, seduto in questo bar, in un luogo sospeso in un tempo che non c’è, un tempo suo diverso dal mio.
Il “Rote Sterne” è una struttura di pietra che ha almeno duecentocinquanta anni, e insiste in un territorio preciso, Marburg, cittadina universitaria nell’Essen in Germania, ed è qui da sempre e ci resterà, mentre io sono un corpo semovente con una mente che insiste in sé stessa, che può spostarsi in un nonnulla altrove. Questo pomeriggio mi sono parcheggiato qui, con in mano un bicchiere di Porto Vasconcellos di Vila Nova da Gaia, bianco, invecchiato, capace di raccontarmi la storia del falegname che ha costruito la botte in cui è maturato, di farmi sentire le cicatrici sulle sue mani che diventano le mie mani, con le quali mi ritrovo a stringere la mano annerita dell’uomo che ha staccato le pigne d’uva dalla vite, di portare al mio olfatto l’odore del seno di latte della madre dei suoi figli, alla sera quando, dopo una cena consumata in fretta, vi nascondeva il volto e si addormentava, diventando lui stesso il figlio della sua donna. Un vino capace di staccare un ricordo dalla mente e ri-portarlo dinanzi ai miei occhi, di regalargli una vita propria e renderlo capace di raccontarsi a me che l’ho partorito…e rammentarmi di quell’anno passato in Portogallo, tra Lisbona, Porto, Coimbra e la casa di campagna di Oliveira de Azemeis. Con l’amore di Juan e lo spettro della morte di Angel, volato via a cavallo della disperazione per aver contratto l’A.I.D.S., sospinto nel vuoto dal rimorso sposato al non rimpianto. Per aver semplicemente vissuto la vita, l’unica che ha avuto, come ha potuto, come ha saputo, come aveva imparato a viverla da solo considerato che nessuno gli aveva mai insegnato, e chi e come avrebbe potuto farlo, in che maniera viverla. Angel che vive pur essendo morto, perché è dentro tutti noi che l’abbiamo incontrato. Angel il cui sorriso continua a illuminare le mie notti buie, e darmi gioia e forza…E ritorno in Portogallo, ri-vivo quei tempi, quelle notti e quei giorni, e lo sento Angel, che ci esorta, Juan e me, a viverci ed amarci se lo vogliamo davvero.
“Presto, facciamo presto, viviamo intensamente le nostre vite” ci dicevamo Juan e io. “Facciamolo ora, e lasciamo fuori da noi le nostre paure, e i loro giudizi affrettati…e stiamo attenti, e smettiamo di immergerci nell’eroina, saliamo di nuovo in superficie a goderci il sole di questa meravigliosa terra”. E allora scendevamo in garage a prender l’auto, e correvamo con il vento nei capelli e nel cervello, a spazzare le polveri inquinanti delle maldicenze, e dei nostri pregiudizi verso chi ritenevamo ne avesse, inconsapevoli di essere i proiettori di noi stessi sullo schermo delle espressioni altrui.
Via di corsa sino alla lunghissima spiaggia di Espinho, via tutti gli abiti, via anche le mutande e di corsa nell’acqua gelida dell’Oceano Atlantico, dove restavamo immersi sino a che non sentivamo di aver spurgato le nostre anime da tutto lo sporco, di nostra produzione e residuo di quello tramandatoci dai nostri avi con le loro tradizioni, i loro miti, le loro appartenenze che ripudiavamo ma a cui, sovente, soggiacevamo nostro malgrado. E poi, seduti stretti l’uno all’altro, sotto l’accappatoio, sulla sabbia calda, ad aspettare la bassa marea, sino al calar del sole. Solo allora, quando le acque si ritiravano di quasi un chilometro, scoprendo il territorio lunare sotto la superficie e trascinavano nel profondo del mare le nostre scorie, ci sentivamo finalmente liberi di volare. E dimenticavamo il mondo dietro le nostre spalle, e disegnavamo la nostra “neverland” sull’orizzonte rossastro, e incontravamo di nuovo il caro Angel, finalmente libero, prima che dalla malattia, dai suoi rimorsi. E restavamo ad ascoltarlo, in silenzio, mentre ci sussurrava di non averne di rimorsi, almeno noi, di non procurarcene. Quasi a supplicarci di non sprecare tempo. E sentivamo che la sua supplica altro non era che la nostra supplica a noi stessi, a trovare quel coraggio per essere fino in fondo.
Solo allora ci alzavamo, infreddoliti, ci rivestivamo e andavamo a rifugiarci in un piccolo localino sul lungomare a mangiare pesce cotto alla brace o “bacalao brasa”, e poi a imparare, ad ascoltare e ballare strazianti Fado in qualche vecchia bettola, piena di anziani pescatori anneriti dal sole, bruciati dal sale, e vecchie meretrici incantatrici. A nutrirci del loro sguardo infinitamente blu, della loro esortazione a essere capaci di resistere e provare a diventare vecchi come loro, sapienti come loro, a ritornare bambini come loro, così tanto pieni di vita vissuta da essere diventati finalmente leggeri. Allora, quando tornavamo a casa, nella vecchia casa di Oliveira de Azemeis, ci addormentavamo consapevoli di stare a sognare lo stesso sogno, a credere che questo lo potesse trasformare in una quasi realtà. A crederlo sino al mattino, quando prima la tosse poi i conati di vomito, ci facevano scattare sull’attenti. “Passa el mono, la scimmia, e dobbiamo prostrarci ai suoi piedi” e penetrarci, non più con i nostri membri ma con gelidi aghi di acciaio, e inondarci di caldo liquido ambrato. Che momenti terribili, momenti terrifici, quando senti che non ti stai amando, e hai un bisogno disperato di essere amato da qualcuno fuori di te…era allora che il nostro amore diventava imprescindibile per sopravvivere, per continuare a “credere” in un futuro diverso, per mantenere in vita il folle progetto di ri-generarci nuovi. Ragionammo Juan e io, e capimmo che la nostra possibilità di salvezza era solo una. Era aprire il baule dove erano seppelliti i nostri dolori più profondi, era armarci delle nostre forze residue, brandire le poche armi rimaste con coraggio, e affrontare i mostri. In una battaglia campale, con ferite le cui cicatrici mai si sarebbero potute, ne’ dovute, cancellare, perché monumenti alla forza, al sangue, alle lacrime. Sepolcri dei nostri tanti io fasulli, affrontati e sconfitti.
“Ma quanti cazzo sono, quanti siamo qui dentro di me, quanti siete dentro di lui,quando finirete di moltiplicarvi” ci chiedevamo.
E ogni giorno un nuovo insegnamento che arrivava da un nuovo fallimento, sino a capire che era il momento di riempire i vuoti interiori dentro cui i mostri nascevano, si fecondavano, si moltiplicavano. E ci domandavamo cosa ci servisse, di cosa avessimo bisogno.
“Di cosa sei vuoto Juan? Di cosa hai bisogno davvero? E io ? Cosa mi serve ?”.
“Andiamo a riempirci di quello, e facciamolo sino a che asfissieremo la madre dei mostri, e facciamolo insieme sino a quando avremo le stesse mete, e quando non saranno più le stesse per entrambi, allora copriamoci con la coperta del nostro amore, affrontiamo l’inverno gelido del peregrinare solitario che ci attende, ma andiamo !”.
Cazzo se siamo andati, così tanto lontani, prima insieme e poi da soli, da essere tornati. Tanto lontano da ritrovarci seduti qui a Marburg io, a Madrid tu.
A questo tavolino del Rote Sterne di Marburg io, e in un chiringuito al Parque de El Retiro di Madrid tu. A bere lontani, eppure insieme, questo splendido Porto invecchiato.
Insieme lontani, e attorno a noi i pescatori anziani e le meretrici incantatrici delle notti di Espinho, e Angel, e tutti quelli che abbiamo attraversato e ci hanno attraversato. Tutti qui, come riuniti nell’ancestrale rito del cerchio intorno al fuoco, a raccontarci vecchie storie di passate avventure, le giornate di caccia, ad ascoltarci l’un l’altro, a riconoscerci oggi Sciamano, domani discepoli, e poi ancora e sempre e solo uomini soprattutto…
E vuoto il bicchiere, e mi domando cosa ne sarebbe stato di noi se non ci avessimo creduto, se non ci credessimo, se non fossimo dei…”pazzi”?
Continuo a sorseggiare, seduto sulle sedute di cuoio verde, su cui culi grassi di pensatori teutonici hanno elaborato i pensieri che penso anche io. Pensieri che mi penetrano l’anima, la fanno pesante e pensante. Aspetto Sven che arrivi, con il suo sorriso e il suo zainetto pieno di numeri. Bevo e ricordo l’incontro di un paio d’anni orsono.
…Sven e l’incontro su quella scala che porta alla Elizabethkirche. Il suo sguardo stupito, leggero, trapassante…limpida acqua in cui ho scorto nuotare l’ombra del segreto. Ed è stato un attimo, ho deciso di seguirlo, in silenzio, sino alla stazione, dove l’ho guardato salire sul treno, e sparire nel mio rimpianto di non avergli saputo dire neanche ciao.
Era Giugno e stavo per tornare in Italia. Un estate che, sebbene baciata dal sole, mi faceva sentire freddo. Allora tu, Juan, nel mio ricordo a dirmi che non potevo lasciarmi ammazzare dal freddo del dubbio. E a Settembre sono ritornato. A Marburg, sulla scala dove lo avevo incontrato. E ho aspettato, tre mesi, ogni giorno alla stessa ora. Che passasse ancora, o che passasse per sempre il ricordo di un ricordo mancato.
E poi è apparso, sulla bici. L’ho guardato negli occhi, ancora come allora. E ancora l’ombra che nuotava sul fondo del mare. Ci siamo seguiti, io dietro, lui avanti che mi seguiva precedendomi. Sino al fiume, il Lahn, dove ha legato la bici.
Alle panchine, la panchina di Schwulen Park, e si è seduto, ed ha aspettato.
Il mio tedesco incerto, per chiedergli se parlasse inglese. La sua risata imbarazzata, e poi seduti.
La pioggia ha cominciato a cadere, leggera e fredda. Il mio braccio è scivolato dietro la sua schiena, le dita sui lunghi capelli ricci. La sua testa reclinata imbarazzata all’indietro.
“It’s gonna raining…would you like to drink a cup of tea by my place?” gli ho chiesto. Mi ha guardato stupito e mi ha detto che non sarebbe venuto a casa mia, nella casa di uno sconosciuto…poi mi ha guardato, dritto nel cuore, ed ha aggiunto:”yes, I will. And I tell you why…’cause you’ve been so shy to not speak the last summer, ‘cause you seem so insicure, ‘cause you seem like I am…”.
Un paio d’anni orsono…
Il Porto sta finendo, e Sven sta bevendo la sua tazza di cioccolato con il brandy e parlando veloce. Lo zainetto lo porterò io sino a casa. Lui continuerà a raccontarmi delle lezioni di Giapponese, della voglia di volare a Tokyo, del futuro che, sono certo, non ci vedrà insieme. Lo tengo stretto a me, come fosse l’ultimo istante di vita che mi resta. E mi attraversa il sapore del sale del mare di Espinho, il brivido della paura delle battaglie contro i mostri, contro la madre dei mostri. Il freddo degli aghi di acciaio infilati nelle vene, il sapore del sudore tuo, Juan, e l’umido delle nostre lacrime e i nostri cattivi odori mentre eravamo chiusi in casa a combattere le scimmie di anni.
Non ha conclusione la strada, ha solo tanta strada ancora davanti, e in me resta solo la certezza che non la percorrerò mai tutta, che è già tanto essere qui. In questa fredda Germania, nella città dove dormono per sempre i Fratelli Grimm, dove la mia favola si sta ancora scrivendo…
Domani sarò ancora al Rote Stern, sorseggerò altro vino, ricorderò altra vita, e mi nutrirò per vivere quella che ho adesso…


Marburg, millenovecentonovantaequalcosa


Luigi de Gregorio

11 commenti:

  1. Il confronto "pazzi" - "convenzioni" è del tutto interno alla convenzione, non ne fuoriesce di un capello. I "Rituali" sociali sono intrinseci alla società medesima, alla cultura in cui viviamo, per cui non se ne è mai fuori, né poco né tanto. Siamo figli del nostro tempo, anche coloro che se ne dichiarano fuori o vivono al di fuori delle convenzioni comunemente accettate o ritenute "normali". Quindi, al di là di aggiungere e ripetere la mia ammirazione per come scrivi e come esponi storie di vita vissuta e eventi certo non comuni e attimi di vita intensa e reale, devo però far notare che non è certo questo che significa vivere da "pazzi", quel donare amore non mediato, da nulla, né da rituali né da qualsiasi altro fine, senso o significato. Per vivere in tal modo si deve imparare a "vedere un altro orizzonte". E per chiudere con la mia consueta citazione: Three sides of every stories... mine, yours... the Truth (Extreme). E' questo "The Truth" che significa "vedere un altro orizzonte". Rest in peace.

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  2. ...sovente è "convenzione" ritenere che ci siano altri orizzonti, che ci siano altri panorami, che ci siano altri "qualcosa"...forse chi negli scenari della follia ha viaggiato e vissuto potrebbe raccontare di assoluti normali scenari, celati dietro occhi e movenze diverse...chissà...
    Forse follia è cercare ragioni che non esistono, applicare assiomi personali e pensare che siano di tutti...forse follia è pensare di non essere folli. Forse un folle è l'unico che non lo è...
    Attraverso scenari inenarrabili ogni giorno, passeggiando nei mondi dei miei "ragazzi" e cercando ponti che mi uniscano a loro...poi improvvisa la consapevolezza che non c'è bisogno di ponti, perchè non ci sono sponde diverse da unire, solo dimensioni altre da riconoscere, dentro me stesso...dentro "noi" stessi...
    Vielen Danke Joseph

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  3. Cominciavo a preoccuparmi, pensavo non ci fosse più nessuno da queste parti... In ogni caso, teoria interessante la tua, andrebbe però applicata anche a se medesima, e a chiunque la promuova. Ne seguirebbero delle conseguenze interessanti, non trovi? Prendendola molto alla lontana, potrei dire...


    L'idea che l'umanità, ciascun essere umano singolarmente preso, persegua la propria felicità è la più colossale puttanata mai ideata da mente umana, dopo la creazione degli Dei; compresi quelli più esclusivi e monotematici.
    Ciò che l'umanità persegue con scientifica e indefessa costanza è l'estraneazione dalla realtà, da qualsiasi cosa, gesto o parola possa anche solo lontanamente ricordarle la vita, che è viva.
    Tutta la storia, la cultura, l'arte, il quotidiano, non è che questo immenso tentativo di esautorare la realtà, con i suoi splendori e le sue bassezze.
    Ciò che persegue è la fuga.
    Eliminare ogni ricordo di cosa sia vivere, per isolarsi in un puro, innocuo e desolante deserto.
    L'Uomo persegue uno stato larvale, in cui sentirsi, finalmente, a casa, per potersi crogiolare nella sua vacuità, nullità in mezzo al nulla.


    Vedere un altro orizzonte non è affatto utopico.
    But no one cares...
    I miei omaggi di sempre a te.

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  4. ...concordo in pieno...ma continuo a sostenere che un "altro orizzonte" altro non è che un orizzonte esistente dentro ognuno e non "alieno"...siamo tutti "tutto", e il pensarsi "più" o "meno" di altri è, a mio avviso, qualcosa che oscilla tra il delirio di deità e/o la sottovalutazione di sè...
    Sono certo che tu, come me e tanti altri, forse tutti, guardiamo a "un altro orizzonte" costantemente, incessantemente, e altro non facciamo che tentare di coniugarlo con una realtà omologata...la meraviglia dell'uomo è il suo essere unico e irripetibile, ed essere uguale a tutti proprio nella sua diversità. La diversità, di senso, di orizzonte, di intenzionalità, è l'unico fattore che ci accomuna...
    And believe me, I spend the longest part of my day living with those that the "normal" people use to call "fools"...and I'm not the only one. Many people cares about the same things we're talking about, the problem is that not all of them are brave enough to share their feeling, even I'm sure they feel what we feel...
    Grusses aus Italy

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  5. ...non ero scomparso, ero solo in giro a cercare pezzetti di me sparsi per l'Italia...li ho recuperati e son tornato alla base...

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  6. Caro amico, il riferimento alla latitanza generale non era certo rivolto a te; ti ho letto e ti leggo sempre con piacere estetico, interesse spirituale e partecipazione emotiva. Ma a quanto pare la partecipazione generale si è ridotta parecchio; non mi pare di scorgere particolare partecipazione al dibattito, al pensiero, da un poco di tempo in quà. In ogni caso, è sempre un piacere disquisire con te. Per riprendere il filo del nostro discorso, sono pienamente convinto, con te, che se s'interpreta l'affermazione "vedere un altro orizzonte" come un qualcosa di trascendente rispetto alla realtà, prerogativa mia o di chiunque altro, sarebbe, come ben hai detto, una specie di delirio da onnipotenza, sia in positivo come in negativo. Quindi in sostanza concordo con te, e non potrebbe essere diversamente del resto. Quello che intenderei sottolineare, però, prende spunto proprio dalle tue parole: "La diversità, di senso, di orizzonte, di intenzionalità, è l'unico fattore che ci accomuna...". Il relativismo che mette in questione, partendo dall'intenzionalità con cui ciascuno di noi vive e osserva il mondo, l'unicità della realtà, consente ai più di evitare il confronto con l'assoluto, che non è una qualche divinità, né un qualcosa che limita e destituisce di senso la libertà umana, ma è quel'orizzonte di senso in cui ogni punto di vista personale e originale si inscrive. Se ciò che ci accomuna è questa prerogativa di ciascuno di noi a essere diverso e a vedere secondo la propria rispettiva intenzionalità, resta però indiscutibile che ogni punto di vista è umano e si inscrive nell'umanità di cui tutti noi partecipiamo. Dunque esiste un orizzonte di cui tutti noi siamo parte, ed è questo orizzonte che ostinatamente l'umanità si dimentica e cerca di non vedere. Vedere un altro orizzonte significa, dunque, vedere questo orizzonte. Detto questo, è quindi vero che nessuno è alieno da questo orizzonte, ma diversa è la capacità di ciascuno di noi di esserne consapevoli e di accedervi. E questa capacità non dipende dal carattere, dalla storia o da altro fattore contingente, ma appartiene alla nostra natura di esseri umani; se non la si promuove, coltiva o non se ne fa uso, è per cattiva volontà. Perché, come dicevo, l'umanità non persegue la felicità ma la fuga... da se stessa, principalmente, ma in assoluto e generalmente dalla realtà. Volendo usare un'immagine nota, "vedere un altro orizzonte" non significa vedere la luna che il dito indica senza fermarsi al dito, appunto, ma vedere il dito, la luna, l'orizzonte in cui emerge l'indicare e l'oggetto indicato, l'intenzione con cui viene indicato l'uno o l'altro dei due oggetti implicati, vedere l'intenzione con cui lo stesso sguardo si dirige ora sull'uno ora sull'altro oggetto e percepire l'orizzonte entro cui viene vissuta tale scelta di preferenza, tale orizzonte di senso che ciascuno di noi, volente o nolente, è. la questione è, propriamente, filosofica, non una scelta di campo in una improbabile e improponibile dicotomia tra due o più specie di umanitas. Concludo questo sproloquio che spero non ti abbia annoiato, confermando le tue parole di chiusura...

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  7. ...Mi auguro davvero vi siano un numero così elevato di persone capaci di vedere la realtà, soprattutto la realtà degli altri, ma purtroppo mi pare più una speranza che una certezza.... perlomeno è questa l'impressione che ricavo dal quotidiano vissuto, dalle giornate spese tra colleghi veri o presunti, nel girovagare per la città e in quanto vivo e percepisco quotidianamente. Questo può dare, effettivamente, l'impressione di un certo tono giudicante, di una certa presunzione e arroganza nel definire "altro" ciò che è comunque umano, ma è difficile sentirsi all'unisono con chi pervicacemente si ostina a fuggire la realtà. I miei omaggi e la mia inesprimibile, a parole, gratitudine per la profondità del dialogo e per l'attenzione e la gentilezza del tuo ascolto. Ti dico solo "Grazie" perché non v'è che questa parola, ma alla parola conviene una sostanza. Take care of you.

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  8. ...in un accesso di "noità" mi sono sentito un noi che latitava, ed ho risposto di getto...e in fondo, a ben pensarci, ognuno di noi è tanti "sè" che convivono in un involucro-corpo...ed è la bellezza di essere "uomini vivi", che esperienziano e divengono. Penso a me chiuso nel Korper e al mio Leib che è altro, come tu di lingua tedesca puoi ben comprendere. Un Leib che è fatto di tutto ciò che attraversiamo e che ci muta, mutuando il vissuto e divenendoci altro...
    Ieri anche io mi domandavo, in effetti, dove fossero finiti i potenziali partecipanti a queste discussioni...e mi chiedevo anche se non ci fossimo spinti, tu ed io, un po' troppo "da qualche parte", tanto da aver scoraggiato la partecipazione...
    Queste mie parole vogliono essere una chiara provocazione e una richiesta di "indicazioni", di feed-back, a coloro che sono scomparsi...
    Ho amato molto l'esempio del dito e la luna...siamo sulla stesa traccia, forse verso una stessa direzione, probabilmente su sentieri diversi. Ed è la meraviglia dell'incontro di viandanti che percorrono la strada "verso", che non fuggono "da", e che di tanto in tanto si incrociano, bivaccano sotto le stelle, conversano e riprendono il cammino. Verso una prossima partenza e non verso un definitivo arrivo...
    E' sempre un piacere scambiare quattro chiacchiere, che poi tanto chiacchiere non mi sembrano...
    Bis dann Joseph

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  9. ...è bello davvero pensare che "altro orizzonte" sia semplicemente quello che vede chiunque si affacci da una collina verso il mare, fatto di semplici onde, di riflessi di luna, di nubi rosate. E' profondamente vero che siamo così tanto adusi a guardare alle cose complesse, che perdiamo la meraviglia delle cose semplici...che "altro orizzonte" è semplicemente l'orizzonte condiviso e condivisibile, e non quello privato.
    Adesso ringrazio io te...e poco ci manca che arrivino dei violinisti tzigani a questo che voleva essere un simposio ed è diventato un dialogo a due...

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  10. Credo che in questo momento l'arrivo di violinisti tzigani sarebbe davvero troppo; potrebbero enfatizzare ulteriormente il mio spirito già di per sé tendente alla malinconia e in particolare in questo ultimo periodo. In ogni caso l'idea potrebbe essere interessante, magari in una successiva riflessione sulla dimensione del viaggio. Poiché qualcuno disse: vero viaggio è ritorno. Di certo non è una fine, un arrivo. Semplice come la realtà, il viaggio rasenta la dimensione metafisica, forse anche per questo partecipa dell'orizzonte umano, di cui e da cui si trnde a fuggire ma che resta tale, orizzonte, in cui si inscrive ogni storia e ogni viandare. In qualità di viandanti, è bello ritrovarsi e riconoscersi, scambiando impressioni e pensieri a ogni stazione di sosta, lungo il cammino. In attesa che giungano altri viandanti a riallargare a simposio questo nostro dialogo, non posso negare che comunque la ricchezza della sostanza è tale da meritare il lungo viaggio che ci ha portati fin qui. A presto, amico mio.

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  11. Buona sera signor e la signora

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    portato ad una necessità di denaro pronto ultimo mese che ho
    per salvare un pericolo di vita, all'inizio non credevo uno
    Nulla, ma la mia curiosità mi ha spinto a provare e alla fine sono
    stato in grado di
    ottenere questo prestito che sono uscito da questa impasse I
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    140.000 € è stato accreditato ho chiesto. Avete bisogno di prestiti
    soldi per il privato
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    duvalles.phillips@outlook.com

    Grazie per aver finalmente passato il messaggio per aiutare chi è nel bisogno

    Buona fortuna!

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