Il ponte

Il ponte
Quadro di Enzo De Giorgi

sabato 20 marzo 2010


Elegia di Marzo

un video di Maria Korporal
con musica di Angelo Gilardino
interpretata da Luigi Giffi




technica: Video e animazione digitale
durata:
5'00"
anno:
2009




Il video è una libera interpretazione del pezzo musicale "Elegia di Marzo", composto da Angelo Gilardino ed eseguito dal chitarrista Luigi Giffi. La composizione è un omaggio al poeta spagnolo Juan Ramòn Jiménez e alla sua lirica intitolata "Oberon a Marzo".

Oberon a Marzo

Tu accompagni il mio pianto, marzo triste,
con la tua acqua.
– Giardino, le tue rose nuove
già marciscono in fondo alla mia anima! –

Indifferenza e freddo.
Le immagini caste
che colorai, sul fondo
della mia illusione romantica,
mescolano il loro colore, pallidi dipinti,
nella lagrima calda e silenziosa.

Oh, tutto quello che doveva
essere mio!
Passò tutto.
Che falsa
verità quella d'un istante, vita!
Mi sembra
che fosti, amore, una statua
di neve, che la primavera,
come il suo cielo grigio disfà in lagrime.

Juan Ramon Jimenez (1881-1958) Premio Nobel

Traduzione trovata su www.qforum.it/poesia/763-poeti-spagnoli.html#post10383

video © Maria Korporal – http://www.mariakorporal.com/


Weiss Nacht

...non c'è più il tempo...Kairòs si è impadronito della mia anima e la sospinge, verso altrove che non è più qui. O forse è un "qui" altro. Il mio personale tempo, in a-sincronia con questo mondo immondo. Non vi appartengo, a esso non a voi che leggete, scrivete, ridete, bevete...bevete alla mia salute che forse c'è forse no. Non lo so, anche perchè non so cosa dovrei sapere. E quello che credo di possedere mi appare sempre più come qualcosa di mio e non condivisibile, perchè forse solo un niente che vesto da qualcosa. Per darmi un tono...una nota. Come quelle che mi affibbiavano a scuola, le note, tante note in condotta. Io bambino vecchietto bravissimo che sa tutto e sa anche come rompere le scatole. Perchè mai stato al gioco, mentre giocava. Mai stato al gioco degli adulti...e come faccio adesso a stare al mio gioco? Che dico? Avessi bevuto mi capirei mentre non mi capisco, ma sono sobrio, e allora ancora più folle...sono scappato al sonno del sogno che rivela la vera natura, e mi ritrovo sveglio mentre la follia non è nel suo spazio deputato. Dal mondo normale, che vuole esser folle solo ubriaco, o mentre sogna e disegna la realtà che vorrebbe di giorno, quando inscena una normalità, anormale per se stessi sebbene normata dalle regole, che pesano come tegole...che realizzano un tetto sotto cui nascondere la vera identità. Perchè non ci credo che tutti siano quello che appaiono, neanche i più santi, i più delicati, i più dedicati...sono convinto che tutti si porgono nella maniera in cui la mente loro ordina di fare, per sembrare decenti, per entrare in un gruppo, per appartenere a qualcuno o qualcosa. E poi di notte quei sogni, i pianti e le urla, il sesso sfrenato e le scene più oscene. Che neanche allo specchio, perchè a guardarsi non ci si riconoscerebbe. L'anima si, ma la mente non può...e gli occhi, ad essa asserviti, rifiutano di registrare l'immagine dentro la superfice riflettente. Che se la guardi il cervello si sente derubato della sua capacità, del suo dovere di riflessione, e si flette, si piega sotto la ragione del riflesso allo specchio, che da esso prescinde. Non ha senso tutto ciò? Certo che no! Non vuole averne. Voglio sfuggire alle regole della logica, seguire il fiume impetuoso che muove le dita sulla tastiera, correre dietro le parole così come posso...guardandole da dietro perchè sono più avanti di me. Mentre le scrivo, si voltano e mi fanno sberleffi. Sono già andate e io qui ancora a tentare di dar loro un senso. E chi se ne frega di dare un senso allora. Vi frego parole, vi scrivo come riesco. E peggio per voi se non dico quel che avreste voluto dicessi. Adesso sono io che comando il gioco. Niente Leopardi e nemmeno Manzoni, lungi da me la poesioa di Aleixandre, il dolce stil novo...forse un po' di Bukowsky, un pizzico di Rimbaud, magari quel che mi resta di Burroughs. Stanotte è pieno giorno e allora si gioca. Sull'altalena dei tempi aritmici e atipici e un poco antipatici. Che poi è un paradosso, perchè più sei antipatico più sei patico con te stesso. E se sei patico con te, sei empatico con quell'IO che sei da qualche parte. E nello spazio in mezzo, tra te(me) che scrivi e "Io" di cui vorresti dire, nello Aidà di Kimura Bin, proprio in questa terra di mezzo tra me e il mio pensiero di me, forse qui in mezzo ci sono io. E a voi cosa importa. Io maledetto, benedetto, raccontato da chi mi ha incontrato, secondo lui, mentre di me ha visto quello che la sua prospettiva gli ha permesso di vedere. E io di lui che ho visto da tre luoghi diversi. L'ho visto da me, l'ho visto da "Io" e l'ho intravisto da qui in mezzo dove sono adesso.
Dove mi sta portando questo rafting sulle rapide del pensiero?
Arriverò in una laguna?...se così sarà mi fermerò, guarderò le parole ferme e ordinate, mi specchierò sulla superfice dell'acqua...e sarà calma, sarà immagine che la mente riconoscerà...sarà di nuovo tutto ciò che a scuola mi hanno insegnato...sarà ordine e precisione. Attenzione a congiuntivi e punti e virgole...sarà dirmi: ma come scrivo bene, come son bravo a raccontare con ordine quel che il mio cuore mi dice...
Torneranno Guinizzelli e Cavalcanti, la memoria del Cecco Angiolieri, il Pascoli e Nuno Judice...e io scomparirò dentro di loro, fingendo che mi abbian dato modo di raccontarmi a dovere...
Me ne andò a dormire, a sognare le strade ventose di Tangeri, o forse le gole con i torrenti in Extremadura, al confine con il Portogallo dove milioni di alberi di ciliege tra poco daranno "cerezas", della spiaggia di Laredo in Cantabria e i folletti di Lierganes, gli Eucalipti della Galizia...il mare calmo e trasparente di Kho Samui, gli odori di Bangkok di notte...domattina cappuccino, spremuta d'arance e pan brioche con marmellata di fragola, passeggiata con il mio cagnolino...e tutto questo, questo tsunami di me, questo "io" che sta tracimando, sarebbe solo ricordo sfumato se non lo avessi riversato su questo...questo cosa? Che non è neanche più una pagina, come era una volta...se non lo avessi fissato qui, adesso!

Luigi de Gregorio (forse)

venerdì 19 marzo 2010

Malika

Il cambiamento, caro mio, è la chiave del desiderio
Tahar Ben Jelloun, Partire




Le creature di sabbia sono sempre cittadine di una ferita e soggette ai forti venti del deserto e del pregiudizio.

Sono ferma guardando il mare all'orizzonte. Lontano lontano la costa di Spagna si ostina a restarmi celata allo sguardo. Troppo lontana la costa di Spagna disegna l'arco a sesto acuto delle tue sopracciglia, muto punto interrogativo sulle mie parole. L'immobilità mi procura uno strano formicolio in tutto il corpo. L'immobilità è delle pietre. Non può appartenerci se non per un istante. Scruto il mare all'orizzonte mentre granello dopo granello la sabbia scivola nella clessidra del desiderio negato. Il formicolio aumenta. L'immobilità è della pietra. Scruto all'orizzonte il mare mentre divento formicolio. Ferma. Poi divento pietra. Arriva la sera ed io divento sonno. Dormo. Mi abbandono.Il mare vive dentro al mio sonno e la luna mi fa da sfondo. Sento cambiarmi le fattezze del volto e poi il corpo piano rinasce ignaro del suo stesso genere. Tutto e niente. Sono.

Ascolta, viandante. Passa senza dire nulla. Guarda col tuo sguardo la ferita, l'orlo del sangue rinsecchito segna l'impronta dell'onda sulla battigia in un tramonto pallido. Accarezza quell'orlo con sguardo curioso. Poi vai. Non è da me il tuo posto. Il tuo posto non è qui.

La tua voce muta al mondo me la porto dentro da secoli, suadente e piena di illusorie ed improbabili vicinanze. Certe solitudini sono senza scampo, senza via di fuga.

Oggi andrò all'hammam e laverò questa ferita che il mondo non possa più vederla e neanche immaginarla. Non sopporto gli sguardi pietosi. Mi sono intollerabili alla vista.

Qualcuno dice che sette sono le porte da attraversare. Io sono appena alla terza. Devo prepararmi per la successiva.
Lasciami solo un po' d'acqua per quando avrò tanta sete, viandante.

Sulla via dell’hammam, passo dal souk e mi ricordo di quando mia madre sgozzava le galline. Un solo colpo secco e, pendulo, si rovesciava il capo dell’animale pieno di morte dove un attimo prima c’era vita. Secca e improvvisa era la torsione del collo della gallina, secca era mia madre e brutale quando nel souk mi torceva il polso appena i colori di una tela mi avvincevano lo sguardo. Bastava questo gesto a togliere voce a ogni mio desiderio. Madre, madre che mi hai negata al desiderio! Lo scriba a cui chiedesti di scriverti una lettera d’amore non ebbe esitazione a dirti: No. L’amore non abitava il tuo cuore e lo scriba non aveva parole per te.

Il souk vive di frenesia, vive di sogni strappati a turisti imprevidenti. Comprerebbero anche lo sterco al prezzo di un diamante. Deve essere il sole. Questo caldo che ti bracca l'anima. Noi ci siamo avvezzi e sappiamo che è folle sfidarlo. Bisogna solo fotterlo giocando d'astuzia e di lentezza. Siamo più scaltri noi. E' una scaltrezza che viene da lontano. Il segreto sta nella lentezza. Tutto qui.

Profumi di spezie e di incensi riempiono l'aria in un modo che è quasi nauseante. Bisogna respirare in modo saggio per non esserne storditi.Oggi ho gli occhi stanchi, così tanto stanchi che disegnano cerchi concentrici intorno ad una sola immagine sfuocata, che assomiglia alla tua nuca. Ma non la tua nuca di oggi. No, non quella. La tua nuca di venti anni fa, quando davanti ai dotti dell'università discutesti il tuo lavoro di agronomia e davanti a una domanda inaspettata il tuo collo prese a torcersi così nervosamente che mi sarei messa a urlare contro quegli uomini che ti mettevano in difficoltà, ad arte. Sembrava una cosa studiata. Forse una piccola vendetta. Mediocri.
Gli occhi oggi sono stanchi di una stanchezza che viene da lontano e granelli di sabbia si frappongono tra la tua nuca di ieri e quella di oggi. Devo cercare lo scriba. So che qualcosa ne scrisse. Dei versi, credo. Versi sul tuo collo nervoso. Te li lessi una volta venti anni fa e poi di nuovo appena due anni fa. Ne ridemmo. Devo cercare lo scriba. Lo cerco. Non c'è. C'è solo una sedia. Vuota.

Cerco lo scriba. Chiedo ai vicini. Non ne sanno niente. Saranno tre anni che non si vede in giro. Deve essere partito, dicono. Lo diceva sempre che prima o poi avrebbe preso la via del deserto. Deve averlo fatto.
La sedia vuota, dove prima sedeva lo scriba. Dietro la sedia il muro scalcina coprendo di bianco la strada. E' abbandonata la casa. La sedia è sola. Giro intorno alla casa in cerca di tracce. Nel cortiletto un gatto bivacca all'ombra di un pozzo. Ma c'è qualcosa sul pozzo che sventola al vento. Un piccolo quaderno mezzo spaginato con i fogli ingialliti dal sole.
Apro il quaderno nel mezzo. Leggo:

Sulla sua nuca c'erano scritte tante cose e in modo disordinato. Prima una fine e poi un inizio e poi di nuovo un inizio e una fine. Una mela per tre nel 1989 e la neve a gennaio negli occhi di Zaira nell'anno 2005. Zaira vestita da sposa, la sposa tunisina all'occidente, la vertigine del vuoto negli occhi di Zaira in una fredda mattina di febbraio. E poi l'odore di formaldeide di un ospedale nell'anno 2006 e un albero pieno di nodi nell'anno 1989. Un inizio e una fine. Una fine e un inizio. Nel mezzo: una vita.

Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Mi siedo.

= Legami slegati =

A Samuele

Apro finestre sui miei cortili abbandonati, invito a guardare, e a vedere la vita che mi abita, perduta nei grovigli delle male piante che mi affollano. Ti chiedo di non chiedermi "perché" , solo di guardare "come" esisto, e di raccontarmelo. Mi avvicino e osservo come stai nel tuo mondo, in che maniera. Come vivi il tuo tempo, come guardi le immagini che si presentano a te...come, come, come. I perché servono a chi li chiede, il "come" mi fa sentire che sei qui e non lassù, che mi guardi e mi "studi". Devo abbracciarmi, per capire come sto nel mio corpo, come sento il mio esistere, come vivo il mio andarmene…come fare a trattenermi e farmi uno, per offrirmi alla tua macina, che mi smonterà e rimodellerà, nuovo ancora una volta.
Scorrono barche di carta nel fiume di niente che ho attraversato. Legami che sono ognuno per se, con se, lontano da se.


"I was born with the wrong sign
In the wrong house
with the wrong ascendancy
I took the wrong road
that lead to
the wrong tendencies
I was in the wrong place
at the wrong time
by the wrong reason and the wrong rhyme
On the wrong day of the wrong week
use the wrong method with the wrong technique..." ( Wrong – Depeche Mode )


Dalla finestra socchiusa, raggi di luce e l’invito a un gesto semplice e spaventoso. Guardare fuori nel mondo, smettere di chiedere che altri guardino il mio…scompare la presunzione di essere il solo a sapere dell’oscurità. Improvvisamente l’idea che altri mondi oscuri si aggirano intorno, che altre finestre sono chiuse su vite nascoste. E la tua espressione non è più quella che avrei io se fossi te, è semplicemente, definitivamente, solo la tua. Stare insieme non è più io che sto con te, ma io e te che stiamo con noi, come stiamo con noi adesso. Il mondo si ri-colora di tutta la storia che saremo capaci di scrivere insieme e non delle tinte opache della mia storia mentre ti sono accanto, senza essere con te.
C’era la sabbia intorno allo scoglio quando mi ci sono seduto, la luna alta nel cielo, la bottiglia semivuota e il caldo appiccicoso. Le luci di Porto in lontananza, il tuo capo sulle mie gambe, la mia mente lontana e la mia voce a parlare le parole “dovute”. Poi la nebbia del sonno. Un’ora o forse di più, quindi gli occhi sbarrati, all’improvviso, e la mia ombra lunga disegnata dal tiepido sole dell’alba, sorto di nascosto alle mie spalle, sulla superficie dell’oceano. Non c’era più la sabbia, non c’era più la luna, non c’ero più io come mi ero addormentato. Ma tu eri ancora li, con la testa sulle mie gambe, le mani giunte in preghiera in mezzo alle cosce. Ti ho carezzato il capo e mi sono sentito un martire. Di me stesso, dell’amore tiranno. Il mare era tornato appena la Luna si era nascosta sotto la luce. E noi due bloccati sullo scoglio. La mia vita da sempre, da solo nel mare. Questa vita che mi separa da tutto, mentre mi offre la strada per raggiungere tutti…con i riflessi di me sul mare increspato. Si muovono come veli sottili mossi dal vento, che mi sfiorano la pelle, come fai tu quando io dormo e non vuoi svegliarmi...Orfeo rinnova il suo mito, cantandomi nenie dolcissime di amore incastrato...e la musica che dipinge e non suona, se sai guardare ad occhi chiusi...Il vento soffia leggero e segue le dune sul deserto di pelle che è il mio corpo, scavalca le dune minuscole che il brivido di esserti accanto ha generato. Bruci dentro, ti amo dentro, mi ami dentro, ti voglio addosso e ho solo freddo sulla pelle. Riesco solo a scrivere, a riferire quello che la mia anima mi racconta…lei non ha voce e mi usa. Io sono solo il suo strumento. Succede che improvvisamente le parole nascono, da sole. Perché ogni momento che vivo lo guardo, e la vita mi entra dentro. Dolce penetrazione o stupro violento. E comunque mi feconda…le parole escono a fiotti, incontrollate e mi chiedono solo di metterle li, in ordine. Un ordine che non è mai lo stesso che avevano quando non erano ancora parlate. Le voragini che mi sono scavato dentro, mentre correvo verso adesso, mi hanno fatto diventare una valle profonda in cui risuona l’eco del mondo che attraverso… che mi attraversa quando sono per strada, quando faccio l’amore, quando guardo un bambino che ride. Suoni della vita che mi entrano dentro e poi rimbalzano fuori, un po’ cambiati dalle curve e dagli angoli della mia cassa armonica. E’ la vita che si riprende il suo regno, che canta e balla dentro, e mi invita a non temere il buio quando è notte, a smettere il drappo nero sul capo di giorno. E’ amore che sento che muove… adesso che tu sgrani gli occhi al risveglio, mi guardi e sorridi. Disgiungi le mani, mi abbracci e cancelli in un attimo tutto il passato e tutte le storie oscure, per regalarmi un adesso insieme. Questo adesso che non è più lo specchio d’acqua in cui annegare, amandomi da solo, ma te che mi ami…

mercoledì 17 marzo 2010

= Step Inside =

...questo breve racconto risale a diversi anni orsono ed è stato pubblicato sulla Rivista "Passages - Arti culture riflessioni" . Con infinita infelicità ho scoperto che il nome dato al mio personaggio è uguale a quello usato da Moccia nei suoi (perdonate la spocchia) romanzucoli...Poco mi ha confortato il fatto di averlo scritto ben prima che lui scrivesse il suo.



= Step Inside =

Step è un bambino felice. Sorride quando ne ha voglia, e, spesso, anche quando non ne avrebbe lo fa lo stesso, perché si rallegra nel vedere l’espressione contenta di chi gli è di fronte. Sorride, quasi sempre. E quando dorme ha il volto disteso, sereno, come tutti i bambini. Sogna, e tiene un diario dei sogni, glielo ha insegnato il papà, “perché è un bel modo di conservare i colori dei sogni, e i sapori dei dolci che ti inventi da solo e che hanno il sapore che più ti piace, e l’odore del pane appena sfornato dal forno nella casa di montagna. E il solletico della schiuma delle onde del mare d’estate, il caldo della sabbia sotto i piedi. Ha il potere di rendere infinitamente lunghe le carezze che desideri, per sempre lì, a portata di mano, anche quando mamma e papà non ci sono. E poi un diario dei sogni è importante anche quando i sogni sono brutti sogni. Così li leggi, e ti sembrano quello che sono, solo brutti sogni, niente a che vedere con la realtà, che è fatta dei giochi con il tuo fratellino, e con le graffe calde che Rosa, la tata, ti porta ogni mattino e ti permette di mangiare nel lettino, sporcandoti tutto di zucchero “. Già , la realtà, che però a Step non sembra poi tanto diversa dai suoi sogni. Ha il suo amato cane con cui giocare, e andare a passeggio sentendosi fiero di averlo, e protetto da lui, ha una bella bici, la più bella che si possa desiderare, e la mamma poi! La mamma è speciale, perché non solo è bellissima, la mamma più bella di tutte le mamme dei suoi amici, ma è anche brava a cucinargli le cose buone, e cucirgli i vestiti che ha solo lui e nessun altro, perché la mamma li inventa. E disegnano insieme, guardano i documentari degli animali e i cartoni di Braccio di Ferro, e ridono da matti. Almeno sino all’ora di fare i compiti, quando arriva la dolce vecchia Zia Autilia, che poi è una zia di papà che è stata insegnante per tutta la vita, e che ora è la sua insegnante personale, e lo aiuta a fare “le lezioni”, come dice lei, a lui e a Fabrizio. Zia Autilia ha sempre un buon odore di borotalco, quello con la scatola verde scuro, e gli regala, ogni settimana una moneta d’argento da Cinquecento Lire, a patto che la metta nel salvadanaio. E poi è una strana insegnante Zia Autilia…quando Step gli fa una domanda lei non risponde mai. Dice sempre “ guardiamo sul vocabolario, oppure “cerchiamo nell’enciclopedia “. Step si domanda se forse questa sua strana insegnante personale non sia una che non sa nulla in realtà. Forse è per questo che non insegna più nelle scuole, perché si sono accorti che le cose non le conosce, e delega tutto ai libri scritti da altri. Chi lo sa. E poi perché deve avere un doposcuola? Lui a scuola va bene, anzi benissimo, e lo fanno sempre capoclasse, quasi ogni giorno…tranne qualche volta che, secondo lui, fanno capoclasse qualcun altro per non scontentare nessuno. E gli danno anche la coccarda verde, perché non litiga mai, e gioca, sempre con quel suo sorriso stampato sul viso, e gli occhi spalancati, nei quali c’è perennemente disegnato un punto di domanda , o uno esclamativo. Step è sempre così. Un bambino felice, davvero…Tranne che nelle foto. Non c’è una sola foto di Step che lo ritragga mentre sorride. Nelle foto ha sempre uno sguardo che è …è altrove. Dove è Step in quella frazione di secondo che gli fermano la corsa in uno scatto? Non si capisce, non lo capisce lui, e non lo capiscono gli altri, la mamma, il papà, e nemmeno i suoi cinque nonni. Già, perché anche questa è una cosa che ha solo lui fra i suoi amici. Step ha due nonni e tre nonne, perché il papà di papà si è sposato di nuovo con una signora molto gentile e anche tanto grassa. Così grassa che una volta al cinema si è seduta, e si è rotta la sedia, e lui e Fabrizio sono scoppiati a ridere, e il nonno si è molto arrabbiato. Questo fatto dei cinque nonni ha un sacco di vantaggi…Fanno a gara per tenerlo con loro. I nonni di mamma hanno anche altri nipoti, i cugini di Step, che sono tanti, perché mamma ha cinque fra fratelli e sorelle, e tutti hanno quattro figli, tranne una, zia Margherita, che è decisamente bruttina e non ha neanche un fidanzato…naturalmente. Allora i nonni di mamma lo vanno a prendere ogni tanto, e lui con loro si diverte molto, ma sono un pochino severi, e lo rimproverano quando fa le marachelle, e con loro il sorriso funziona un po’ meno. Un giorno si è messo ad origliare, mentre parlavano tra loro, e li ha sentiti dire che lui è un bambino speciale, un pochino strano…”sembra quasi un vecchietto.” Chissà perché hanno detto così. Lui è corso in bagno, si è guardato allo specchio, e ha visto che non ha la barba che ha papà, non ha neanche quelle righe sulla fronte come il nonno, e ha gli occhi scuri e limpidi, non sono come sporchi di latte e “azzurro vecchio”, come quelli del signore che ogni mattina viene a casa a portare le uova fresche e le mozzarelle che gli piacciono tanto. A volte gli regala anche dei biscotti. Si saranno sbagliati, o forse ha capito lui male. Non ha nulla del vecchietto.

I nonni di papà invece, che sono tre, fanno a gara per tenerseli, lui e Fabrizio, quanto più possono. Da un lato c’è il nonno con nonna due, che ogni Sabato viene a prenderli, e li porta allo zoo, al cinema, a fare le gite. Addirittura una volta, che poi la mamma si è molto arrabbiata, sono andati a Ischia, dove il nonno ha una casa, con l’elicottero. Sono andati al porto, e c’era un gran sole, e sono saliti su una specie di torre dove c’era un elicottero, come quello con cui gioca con Fabrizio, solo molto molto grande, e anche tante altre persone. E poi sono saliti, e improvvisamente si è sentito leggero come una piuma. Anche se gli sembrava che andassero pianissimo, hanno sorpassato tutte le barche che si vedevano giù a mare, e sono arrivati quasi subito. E stato bello, ma è durato così poco. Quel giorno, in segreto, ha deciso che avrebbe imparato a volare. Perché così poteva vedere tutto il mondo come un disegno, e se ne aveva voglia, forse, poteva anche usare una grande gomma per cancellare le cose che non gli piacevano, e ordinarle o colorarle con i colori più belli. Il nonno poi era raggiante, perché aveva vinto la partita con la nonna uno, quella che è la mamma di papà. E già, perché il Venerdi è il giorno della nonna uno, e lei, poverina, è sola con la sorella, che è zia Autilia l’insegnante, e non ha tutti i soldi che ha il nonno. Però li porta sempre al cinema, e a giocare con i bimbi al parco, e nella Villa Floridiana. E poi li lascia giocare a pallone nel salone di casa, insieme a Annina, la figlia down della signora del piano di sotto. Annina, che quando ride lo fa come nessuno dei bambini che Step conosce. Sembra che la sua risata non sia solo un disegno sulla faccia, sembra che è davvero felice, e poi gli vuole bene, a lui e Fabrizio, e ogni tanto ruba la palla, la nasconde e dice loro che il prezzo per riaverla è un bacio forte, e un abbraccio strettostretto. Step la abbraccia, e la tiene così stretta che quasi non ce la fa più. E Annina gli dice sempre grazie, e poi si mette a ridere, e si piega in due, e tocca quasi terra con la testa. Forse la potrebbe sposare da grande. Certo non è bella, anzi è abbastanza brutta. Però Step si è accorto che lei è brutta perché glielo hanno detto alcuni bambini, lui non ci aveva fatto caso. Allora ha detto che è vero che non è bella, ma in segreto pensa che sia bellissima, e sia davvero buona, un po’ come il pane e la marmellata, che resti tutto appiccicato, ma contento di averlo mangiato. Insomma Step vive una vita un po’ tutta sua, davvero simile a un sogno, dove succedono tutte quelle cose che i suoi amici gli raccontano che vorrebbero fare, e lui invece le fa davvero. A volte gli capita di confondersi, e non sapere, quando ricorda le cose, se sono successe davvero o le ha sognate. Ma poi non importa, pensa. Importa solo che lui se le ricordi e siano belle da ricordare. E da raccontare a tutti, appena glielo chiederanno. E glielo chiedono sempre di raccontare le storie. Tutti lo fanno, il papà, la mamma, le zie, e anche i cugini o gli amici. E gli dicono che è bravo a inventarle e raccontarle. Step gli dice grazie, e si fa rosso, perché odia sentirsi così. E poi lui sa che non gli crederebbero mai se dicesse loro la verità, cioè che lui non le inventa quelle storie. Quelle storie sono i suoi ricordi…sono la sua storia.

E poi c’è papà, superman, che arriva tardi la sera, però lo aspettano per mangiare tutti insieme. E papà almeno due volte alla settimana, raduna tutti i cuginetti coetanei, e qualche amichetto un po’ speciale per Step e Fabrizio, e porta tutti in pizzeria, o a mangiare un gelato, spesso al cinema a vedere i film documentario sul mare, che a Step piacciono tanto, oppure i film dove si ride. E fa le foto e i filmini. Poi li rivedono insieme, e nei filmini Step gioca, ride e sorride. Nelle foto invece ha quello sguardo altrove…dove?

Step ha sedici anni, è sempre molto bravo a scuola, ha un profitto ottimo, ma una condotta pessima. Litiga sempre con i professori, ha amici dappertutto, è una specie di Che Guevara in erba. Si batte con i bulli quando prendono di mira un ragazzino debole, e lo fa con le parole, perché odia la violenza fisica. Perché pur avendo un fisico tonico, grazie ai millecinquecento sport diversi che pratica, detesta usare le mani. La mamma gli ha sempre detto che con la parola si ottiene sempre più che con la forza fisica. E lui fa sport, ama correre sulla terra rossa ad acchiappare una pallina con la racchetta, tuffarsi in acqua e lasciarsi il mondo dietro le spalle, correre e saltare gli ostacoli ogni tre passi e mezzo…E piazzarsi in mezzo al campo di calcio a contrastare l’avversario, e rubargli la palla, fare una finezza e poi lasciare a un compagno l’onore del gol…A Step non piace segnare goals, a Step non piace gareggiare, non gli importa vincere. E un sacco di gente si chiede perché non si impegni un pochino di più, e non sanno che non è ‘ché non si impegni, è che non vuole vincere…Perché poi, quando hai vinto, ti danno una coppa o una medaglia, e poi ? Poi che succede ? Finisce tutto ? E poi con la vittoria tutti saprebbero che è arrivato da qualche parte, e non lo sosterrebbero più nella gara dopo, invece se non vinci fai in modo che si chiedano come mai, e ti stiano dietro a darti una carica, che seppure pubblicamente fingi di non volere, sei felice che te la diano. E poi se vinci ti chiedono di fare di più…E Step è anche un pochino stanco e vorrebbe riposare, andare lontano, per sempre, su una nuvola, dove nessuno gli possa chiedere nulla, dove poter decidere di cadere giù senza nessuno a dirgli, in un silenzio assordante, di non farlo. Step ricorda che non gli facevano mai mettere la manina piccola sul marmo del camino, perché scottava. Forse Zia Autilia gli avrebbe permesso di scottarsi, ma lei non era una brava insegnante, perciò era stata cacciata da scuola. E forse anche quella strana amica di Zia Autilia, quella che era sempre con lei, e la zia teneva la sua foto, che strano, sul comodino…Si chiamava Sisina,e non ha mai saputo il diminutivo di quale nome fosse, e veniva spesso a casa mentre faceva lezione, e si comportava come fosse casa sua. Si volevano molto bene, sicuramente, si sentiva. Una volta papà gli ha spiegato che lei, Sisina, era la compagna di Zia Autilia, e che questo era stato una specie di scandalo, perché non si erano preoccupate di tenerlo nascosto. E allora era diventato un casino mantenere il lavoro nella scuola e tutta la famiglia le aveva un po’ schifate. Allora papà e i suoi amici strani avevano organizzato una scuola privata, e facevano pagare una retta e zia continuava a insegnare. “Cazzo, forte mio papà, e buono “ aveva pensato Step. Però si era anche chiesto come mai la scuola si occupava dell’amore di zia Autilia, che gliene fregava a loro? E quando, non trovando una spiegazione da solo, aveva chiesto a papà lui gli aveva detto che la gente si impiccia sempre dei fatti degli altri così si dimentica dei suoi. Poi scappa nelle chiese a dare soldi ai preti e si compera le assoluzioni , e poi tutta una serie di cose che Step si è scocciato di continuare a sentire, e ha acceso lo stereo è si è messo a sentire Neil Young che canta Harvest, e a pensare se i campi di grano in America sono gialli come quelli della Basilicata, e i contadini di laggiù lavorano nella stessa maniera. E ha chiesto a papà una chitarra che vuole imparare a suonarla. Naturalmente gliene ha comperata una classica e una elettrica, con l’amplificatore Montarbo. Ma può suonare poco perché mamma si incazza per il casino. Cominciano a non andare più tanto d’accordo. Step a volte vorrebbe essere un aquilone che si spezza il filo e vola via chissà dove.

Step passa anche tanto tempo a leggere libri, libri interessanti, almeno per lui, non quelli che fanno leggere a scuola. Sin da quando era piccolo gli hanno sempre regalato tanti libri. Ricorda ancora il primo. Era Moby Dick di Melville, in una rilegatura bella, di pelle rossa. Glielo regalò il nonno al suo ottavo compleanno, e lui se lo lesse tutto in un battibaleno. E gli piaceva così tanto che lo ha riletto mille volte. E ogni volta diventava uno dei personaggi…Quello che gli piaceva di più era certamente Queequeg, con tutti quei tatuaggi e la pelle scura. Da allora ha scoperto che nei libri si può scappare, aprire la copertina, entrarci dentro, e chiudersela dietro, e tutto quello che succede la fuori succede appunto la fuori, e non lo riguarda più. Almeno per il tempo del viaggio nelle parole, e poi fra le parole, e dietro le parole. E ha anche imparato che ogni volta che lo leggi il libro sembra un'altra storia. E, per fortuna, in casa papà ha un sacco di libri, e anche gli amici di papà, e gli prestano volentieri roba da leggere. Certo a volte sembra quasi che si stupiscano che lui legga così tanto. E poi dicono che lui sembra il Giovane Holden di Salinger. Allora si è letto il libro, e secondo lui non si somigliano poi tanto, forse solo per le sigarette che ha cominciato a fumare, in numero esagerato…mah, forse anche lui è come un libro, diverso per ognuno che lo legge, e sicuramente diverso da quello che pensava chi lo ha scritto. Ma poi che importa.

Questa sua passione per la lettura ha fatto si che stabilisse un buon rapporto con la prof di lettere. E lei lo chiama spesso a leggere per la classe, o dare una opinione sui brani che studiano, spiegare. E ancora una volta si trova ad essere lui a dare spiegazioni e risolvere problemi che magari toccherebbero ad altri. Ma non importa, è come routine ormai, ed è allenato e abituato. Tanto da aver quasi dimenticato di essere un sedicenne e solo un alunno, uno studente. E ha pensato che la prof avrebbe, a questo punto, potuto essere una sua “amica”, una a cui poter raccontare cose che esulavano dalla scuola, dei libri che lui legge, di come si sente e cosa sente. Ed è rimasto male, molto male quando ha detto alla prof che stava leggendo Burroughs, e quella si è un po’ incazzata. Perché, si è domandato. E non le ha chiesto il perché, si è solo allontanato un po’ da lei, e ha cercato di capire da solo come mai. E si è chiesto se non fosse stato lui a farla arrabbiare, magari per essersi posto nel modo sbagliato, e quando ha finito il libro ha pensato che l’incazzatura fosse dovuta al fatto che “Ragazzi Selvaggi” parla di inculate fra ragazzi, e droghe e strani riti. Certo lo ha sconvolto un poco quel libro. Per la prima volta si è sentito aperto e invaso dal libro. Quei ragazzi che, selvaggi, si toccano, si godono, si giocano la partita della pelle. E un libro “afoso”, lo fa sudare. E poi gli fa tirare l’uccello, più di una figa, “perché è perfettamente modellato sulla superficie interna del mio corpo” ha pensato Step. Poi si è messo nudo dinanzi allo specchio, si è guardato e si è trovato ben fatto, proporzionato, tonico, con un cazzo tra le gambe, funzionante con le ragazze. Decisamente maschio, certamente maschio. E si è chiesto se ne fosse certo. Ha ricordato la sua prima scopata, a quattordici anni, e poi quelle successive, non tantissime, ma abbastanza. E in verità si è sentito un pochino stranito dal fatto che avesse erezioni continuamente leggendo un libro dove il sesso raccontato è solo fra ragazzi. Dove non c’è una femmina a pagarla a peso d’oro. Si è anche chiesto se fosse il caso di preoccuparsi, ma il pensiero è svanito subito. “Se non funzionassi più allora…ma visto che funziono, e soprattutto visto che il mio corpo apprezza questa cosa, vuol dire che deve essere così, per cui”. Oddio, forse se lo avesse avvisato, Antoine, il francese pittore un po’ pazzo amico di papà, a casa del quale lo ha preso, che quel libro era così, forse non lo avrebbe aperto. O forse lo avrebbe fatto lo stesso, anche perché la copertina lo ha subito intrigato, semplicissima, bianca, scarna, con un rigo rosa e il titolo in nero. La semplicità assoluta. E vero quello che dice papà, le cose più sono enfatizzate, meno pregnanti sono, più sono importanti e meno necessitano di enfasi. Cacchio. Allora ‘sto libro deve essere pesantissimo…e importante. E gli ha fatto venire voglia di sapere qualcosa di più di chi lo ha scritto, e ha scoperto che è uno che mangia oppio, si fa di eroina, si stravolge ad alcool…un folle, uno fuori dagli schemi del mondo. E si è chiesto perché la prof di lettere non gli ha detto ‘ste cose. Che cazzo ci sta a fare lei li, se non spiega questo ai ragazzi. E si è anche ricordato di zia Autilia, che l’hanno cacciata perché amava una donna. E ha deciso che allora il mondo che lo intriga di più, quello più divertente, quello più…vero, è quello dove ci sono le persone che sono ciò che sono e se ne fottono di ciò che devono essere. E poi a casa sua vengono sempre amici di mamma e papà, e sono normali, almeno per lui. Sono sposati, hanno i figli e sono anche persone che lavorano. Però ci vengono anche i pittori colorati e con i capelli lunghi, e c’è quell’altra, l’amica di Zio Willy, che prima era un uomo e poi adesso ha le tette, ed è simpaticissima quando , in montagna va a fare pipì e la fa in piedi perché c’ha l’uccello. E tutti si fanno delle gran risate, anche se qualcuno disapprova che lo faccia davanti ai bambini più piccoli…E perché? Che dovrebbe fare, far finta di non esistere, o fingere di avere la figa e fare tutte quelle manfrine per cercare un posto lontano dal mondo per una pisciata? E poi è divertente anche la faccia che fanno i signori nei bar, quando si fermano per un caffè, e scendono tutti dalle macchine, e lei “la Rina”, perché il suo nome era Gennaro, dice “ ora vado io a ordinare”, e tutti si zittiscocno, e guardano, e lei caccia il suo vocione di maschio. E quella alla cassa si fa rossa, e i tizi che sono al bar si girano tutti, e certamente vogliono morire, perché un minuto prima si sono voltati a guardarla mentre, bella, abbronzata e sensuale, camminava sui suoi zatteroni e nella minigonna. Mamma dice che è la persona più bella che abbia mai conosciuto, e la più coraggiosa in assoluto, e papà ci fa a braccio di ferro, e anche se è robusto e forte deve faticare per vincere.

Step ha provato a parlare con la prof di lettere, perché gli manca il loro rapporto un po’ speciale. Vuole ricucire lo strappo, e vuole parlarle del libro di Burroughs, delle sue sensazioni, e pensa di farlo in classe, così potrà condividere con tutti ‘sta cosa strana che gli succede quando lo legge. Ovviamente non pensa di raccontare che si è sparato qualche sega ripensando a quelle immagini che il libro gli ha rimandato. Pensa di parlare del suo turbamento, e parlarne con una che di libri e turbamenti dovrebbe saperne qualcosa. Pensa di comportarsi come gli hanno insegnato in casa, con chiarezza, e ci crede che nel mondo ci si muova così. E poi a casa gli dicono sempre che a scuola bisogna discutere, sennò uno che cazzo ci va a fare. Le cose si possono anche imparare sui libri a casa, a scuola insegnano a vivere insieme. “Deve essere così” pensa Step, e approfitta di quel momento particolare, poco prima che si cominci la lezione e ancora si stanno tutti sedendo ai banchi, per avvicinarsi alla cattedra. Accanto a lui ci sono Giampiero e Marco, con cui ha parlato del fatto di voler parlare alla prof di un libro che ha letto. Ma quella si è incazzata di nuovo, anzi ancora di più. Senza dare spiegazioni, si è incazzata e basta. Per un attimo Step ha pensato che fosse perché non conosceva il libro, e non sapeva che dire…ma poteva ascoltarlo almeno. Lui non voleva poi parlare del libro, ma di ciò che aveva provato a leggerlo, e stava provando. Niente. E allora Step le ha detto di andare a prenderlo nel culo, e glielo ha detto in classe, davanti a tutti i compagni. E quella, che fino a un mese prima lo amava perché era preparatissimo, si è fatta rossa come un pomodoro, e ha scritto sul registro…e il preside lo ha sospeso, e condannato a tornare dopo cinque giorni accompagnato dai genitori. Step è montato sulla moto, e con fare sdegnato se ne è andato…non a casa, ma al mare, e ha raccontato alle onde che non capiva che cosa stesse accadendo. E ha detto alle onde che non poteva arrivare a casa e dire di essere stato sospeso. A casa lo stanno ad ascoltare e però gli hanno anche detto che non deve cedere all’ira . Perché questo è sempre stato un problema di Step. Quando si incazza lui non si incazza un poco. No, lui diventa una bestia, un toro furioso dopo che gli hanno infilato le banderillas sul groppone. Perché Step ha sempre tanta pazienza, e sta sempre a ascoltare tutto il mondo, e cerca sempre di trovare il modo migliore e il momento più idoneo…insomma lui sa di essere sempre attento agli altri, e accorto nel porsi. E anche quando le cose vanno come lui non vorrebbe, si mette a pensare, a cercare di capire se ha fatto la cosa giusta, se per caso non sarebbe stato meglio fare in altro modo. Poi quando non ha più dubbi si muove. Come dice Donny, il suo amico americano chitarrista, bisogna imparare a non agire. E Step cerca di applicare questo insegnamento…non agire. Ma non è sicuro di aver capito cosa significa. E allora scatta come una molla, con tutta la forza dei suoi sedici anni, e tutta l’energia accumulata nei silenzi di secoli di attesa che qualcuno gli spiegasse perché il suo “sguardo altrove”, visto che lui non lo sa. E ora dovrebbe andare a casa a dire di essere stato sospeso? E perché poi ? Per aver letto Burroughs ? Perché il problema era quello. E poi è stufo di andare a casa e spiegare, sempre. Basta essere sempre così tutto perfettamente a posto e vaffanculo. “ Questa volta faccio come mi dice il mostro che ho dentro e non come mi dice l’angelo. Lascio volare il pipistrello fuori dall’inferno”. Allora Step è tornato a casa, ha aperto il diario dei sogni, perché Step lo tiene ancora il diario dei sogni, e ha scritto, ha scritto, ha scritto. Poi ha aperto quello degli anni delle scuole elementari, ha cercato le carezze infinite, e hanno funzionato. E ha mangiato di nuovo quelle graffe calde e sentito lo zucchero appiccicarsi sulle guance, e le risa di Fabrizio mentre gli schizzava l’acqua. Poi è andato a guardarsi allo specchio, e ha visto che non sorrideva più, ha visto quello sguardo altrove, lo stesso delle vecchie foto di quando era un bambino felice. Cazzo, le foto. Le ha recuperate, guardate, studiate, e non ha capito un bel niente, si è solo trovato come dinanzi ad uno specchio, però in un corpo alto il doppio, un accenno di peluria sul labbro e sul mento, con i peli sul cazzo. Dove guardava quello sguardo? Dove guarda questo sguardo? A chi glielo chiedo ? Zia Autilia è morta da un paio di anni…forse lei gli avrebbe detto dove cercare la risposta, in quale libro andare a guardare. Zia Autilia non c’è più, e a volte non gli basta ricordarsela, vorrebbe sentire la sua voce squillante, il suo odore di borotalco. E vorrebbe avere qualcuno che gli raccontasse una fiaba, e non c’è nessuno che sia disposto a raccontare una fiaba ad un adolescente, alto, forte e colto…e allora ha messo su la favola di “Pierino e il Lupo” raccontata da David Bowie, e ha deciso di sognare. Ma non è più facile come prima. C’è bisogno di qualcosa che lo aiuti. Visto che non c’è nessuno…Chi può aiutare uno che ha sempre saputo fare da se, che ha sempre aiutato gli altri ? Dovrà farlo da solo. Ma come ?

Da qualche tempo Step vede una ragazza, che è molto carina e molto intelligente, una con cui parlano un casino, soprattutto di notte. Con il padre di lei che si incazza, perché Step le telefona alle tre del mattino, magari solo per chiederle a che punto è arrivata con la lettura di “Opinioni di un clown”, oppure se le va di mettere su il disco dei Roxy Music e ascoltarlo insieme, ognuno a casa propria, e masturbarsi, che è un po’ come fare l’amore. Come quando rubano le chiavi della casa al mare di lei, e ci vanno in moto, e scompaiono mentre tutti li cercano. Il loro mondo segreto. Segreto perché poi, durante la settimana, la loro vita pubblica è incasinata da tutta la gente che la frequenta, alla quale verrebbe voglia di urlare “siamo diversi”, e invece manca il coraggio di farlo, e allora si va a fare cose che non gliene può fregare di meno. E poi Daniela va in una scuola frequentata da tutti fighetti e fighette snob, che Step lo vedono come un pugno in un occhio, per via dei capelli lunghi e gli orecchini, oppure come “lo strano” da esibire, come il jolly che ti fa vincere la partita a carte con gli amici. E sembra che nessuno lo veda come è, semplicemente un adolescente con le sue paure. E poi Step adesso ha una nuova avventura che sta vivendo, e lo sa solo Daniela. E Daniela, pensando di far bene, non ne parla con nessuno, mantiene il segreto sul segreto di Step, che invece vorrebbe essere aiutato a non tenerlo segreto. Step trova assolutamente normale assecondare il sogno che sta vivendo con Mauro. Step non ci trova nulla di assurdo ad assecondare questo amore che lo sta legando sempre più a ‘sto ragazzo. Un amore nato con una chitarra e una batteria a fare da ruffiani, i segreti liberati, le carezze sui corpi giovani e snelli, il gusto per la trasgressione. I viaggi a tre, lui, Daniela e Mauro, chiusi nella camera, stesi sulla moquette color mattone, con Peter Hammil o con i King Crimson, e la bottiglia di Bourbon e centomilioni di sigarette. Però a Step tutto questo non basta, o meglio, lo soddisfa, ma perché questa sua vita, questa sua natura deve diventare un ostacolo al mantenimento di altre relazioni? ”Perché” si domanda “i miei amici di sempre, quando scherzano tra loro, per offendere qualcuno lo chiamano ricchione ? Se lo fanno sarà perché pensano sia una cosa vergognosa…e allora io come faccio a dir loro che mi sto innamorando di Mauro? Che spesso ci masturbiamo insieme, a volte scambiandoci la mano, o i cazzi? Come faccio a raccontar loro che a questi giochi, che per me sono naturali, partecipa, talvolta anche Daniela, e che le piace? Come li etichetterebbero , a Mauro, e Daniela…e anche a me?”.

Allora devo andare a realizzare un mondo a parte in cui vivermi completamente, ma come faccio se nel mio mondo c’è posto per tutte le categorie umane, basta che le ami, che abbia avuto un rapporto con loro? Come cazzo faccio?...a escludere persone con cui sono cresciuto, a favore di nuovi amori, oppure a negarmi i miei amori e le mie passioni, perché non condivise, non accettate da loro? Perché la professoressa di lettere non mi ha più voluto bene come prima quando le ho detto di Burroughs? Perché nessuno mi spiega dove guarda questo cazzo di sguardo altrove che adesso è sempre più presente sul mio volto?”.

Step adesso si domanda un sacco di cose che prima non si chiedeva, e sa che le risposte dovrà trovarle da solo. Sa che seppure ne parlasse non risolverebbe un cazzo di niente. E prende una decisione. Una decisione definitiva, che consiste nel non negarsi le cose che ama, e anche se sono in contrapposizione tra loro, lui troverà il modo di soddisfare le sue passioni , amando tutti, e ognuno in particolare. Questa è la panacea, la motivazione che gli permette di essere amico del suo più vecchio amico, di frequentare la vecchia compagnia omofobica, ed essere uno che va con i maschi a scopare nelle discoteche gay, a cenare negli ambienti fighetti con Daniela e suoi amici, e poi andarsi a nascondere con lei e Mauro nella casa al mare. Basta non far incontrare ‘sti mondi tra loro, e va tutto bene. Step poi riesce a mantenere sempre un aura di mistero intorno a se, e questo gli fa gioco…lui è sempre stato “strano”, per tutti, per cui è un gay maschio e maschile, un maschio gentile, un ricco comunista, un compagno che condivide con i compagni...

E sembra finalmente tutto sistemato. Eppure allo specchio, continua a esserci quello sguardo altrove. …Step sta andando al manicomio perché si sente scontento, insoddisfatto, e forse è anche vicino alla comprensione di dove sia la risposta al suo sguardo altrove.

Step si sta avvicinando a una svolta della sua vita, definitiva, e sa che deve fermarsi ora, o non potrà mai più. Ma sa anche che fermarsi significherebbe crearsi un bel rimpianto, enorme, da portarsi dietro per tutta la vita, pesantissimo. Certo sa anche che, la dove sta andando, ci saranno problemi e casini ancor meno condivisibili, ma …Decide allora di parlare a casa con papà e mamma. Non dice loro esattamente cosa gli stia accadendo, non spiega che ama un maschio, che scopa con lui e con una ragazza, che si sta lacerando. Dice semplicemente loro che al momento è felice di poter essere come è. Papà e mamma si sono accorti che lui è innamorato di Mauro, e che Mauro pende dalle sue labbra, e gli dicono che, se è quello che sente, va bene così, che lui resterà sempre il loro adorato Step. E Step pensa di aver risolto tutto in quel momento, mentre in realtà, dentro di se, sa che ha aggiunto un altro tassello al suo disastro interiore. Perché ancora una volta ha trasmesso una sicurezza che non ha. E ora sarà ancora più difficile andare a chiedere aiuto. Da papà e mamma non è andato a chiedere aiuto, è andato a chiedere il consenso per la sua scelta, comunicandogli una certezza incerta. Ed è stato malissimo, perché si è accorto che lui, che credeva di aver imparato tutto, non sapeva chiedere aiuto. Addirittura quando mamma gli ha chiesto se fosse sicuro di volersi vivere la storia con Mauro, se avesse pensato bene se fosse una scelta definitiva o un momento, comprensibilissimo, Step ha tirato un pugno nel vetro della porta, lacerandosi la mano. Come ad affermare la sua forza non percepita dalla mamma, che invece forse ha capito un po’ meglio di lui. Che certo ha percepito la sua insicurezza e gliel’ha riverberata. Quel pugno lo ha tirato a se stesso, alla sua vigliacca spavalderia. Ed è andato in ospedale, dove gli hanno messo dieci punti sul palmo della mano, e accanto a lui c’era Mauro a stringerli l’altra mano e tenergli la sua sulla fronte, e c’era papà che lo ha accompagnato, stordito, incredulo per quanto stava accadendo, come in uno stato di sonnambulismo. E, dopo i punti sulla mano, e le domande idiote del “uniformato” del drappello, che ha chiesto, dopo che gli hanno tolto mille pezzi di vetro da dentro la mano, se in realtà non fosse stata una coltellata. Come fosse normale che uno, dopo una coltellata, si infila pezzi di vetro nella carne !!! Dopo la cucitura e la fasciatura, se ne è andato con Mauro a bere Bourbon, e poi a fare sesso nello studio di papà di cui ha le chiavi. E ha suggellato con il sangue un patto con se stesso, e con la sua scelta, rendendola definitiva. Lasciarsi cadere dalla nuvola, spezzare quel cazzo di filo che mantiene l’aquilone, e volare via, lontano, e precipitare dentro se stesso. Dare ciò che gli serve per avere, e vaffanculo, che si è rotto le palle di dover spiegare, senza che qualcuno gli spieghi. Ha anche pensato che probabilmente lui non è affatto molto sveglio, anzi, quasi certamente non ha capito un cazzo della vita. Ma ora è troppo tardi per cambiare tutto quello che è diventato, che è successo. Ha messo nastro adesivo intorno alla sua argilla, ha usato ago e filo per suturare le ferite. Step ha perso un sacco di sangue, e poiché non è un chirurgo certamente le ferite andranno a male, e perderà ancora tanto sangue…ma ha deciso che sarà così, anche perché non saprebbe che altro decidere. Farà l’amore ancora una volta con Mauro, il piccolo, dolce amato Mauro. Gli mancherà dove andrà. E tutta questa devastazione Step sa che deva contenerla da qualche parte, che deve tracimare le sue emozioni, e che non gli basta Mauro, non gli bastano i suoi libri ne’ la sua musica. Che tutta ‘sta roba ha bisogno di essere messa al sicuro, in qualche parte che sia accessibile solo a lui. Il diario dei sogni non basta più, ci vuole altro…Deve provare a mettere fine a questa agonia. Perché quel sorriso, quella gioia, sono roba vecchia. Adesso c’è una sofferenza atroce, e, forse, il vero piacere di una risata quando arriva, forse la vera felicità che dura una frazione di secondo. Ma non ce la fa a ripagarlo. Step si è convinto di non essere mai stato davvero felice, di aver passato un’infanzia e una adolescenza in un film, carino, certo, ma un film. Di non aver imparato tante cose che gli sarebbero servite e ora non sa a chi chiederle.

Step stasera è andato da solo a cercare un tizio che vende una polverina. Dicono che allunga i tempi, che annulla i dolori. E Step ha pensato che, dato che sente un dolore enorme, gli serve una quantità grande di polverina. L’ha sciolta in un cucchiaio, l’ha aspirata, ne ha sentito l’odore forte e acre. L’odore che forse seduceva anche Burroughs. Ha scritto una pagina del libro dei sogni, raccontando il suo brutto sogno, e poi si è messo l’ago nella vena, ha premuto lo stantuffo, e si è addormentato. Forse poi il brutto sogno sarà svanito quando si risveglierà…ma Step non si è più risvegliato, è scappato nel libro dei sogni, dove la carezza è infinita, l’odore del pane , gli schizzi d’acqua con Fabrizio, le graffe calde e lo zucchero sulle guance, e le carezze di Mauro, e la figa di Daniela…dove guardava quel suo “sguardo altrove” delle foto. Step ha capito che per capire quegli attimi bloccati dagli scatti doveva bloccarsi, fermarsi, e lo ha fatto. Step si è fermato, per sempre.

martedì 16 marzo 2010

Ballata & Truth

Theres no truth in you
Theres no truth in me
The truth is between



Me and some friends of mine
We stayed up all night taking truth serum
We soon realized the mistake we made
And went our separate separate ways.

I went up on the roof
Where I thought Id find some truth
There beneath the stars
But questions followed me

Do you miss me, when I go
Honey I love you and thats all you need to know
Well then, what is love
Love is an object kept in an empty box
How can something be in an empty box
Well well give me another shot
Of that truth serum

I went back downstairs to check on my friends
Because truth has a way of beginning an end
Big Bruiser Ken walks in says
I like men
I excuse myself and go back up on the roof again
More questions follow me

Is death really the end
Honey I love you and that's all you need to know
Well then, what is life
Well thats a good song
(sings) Without you by my side.

Taking that serum

People people theres a lesson here plain to see
Theres no truth in you
Theres no truth in me
The truth is between
The truth is between

lunedì 15 marzo 2010

Ballata (2)

Eccessi


Esagero.

Sempre.

Non conosco le mezze misure.

Tutto o niente.

Bianco o nero.

Ridere o morire.

Di qua o di là.


Mi spiegano che no, non funziona così.


Mediazioni.

Compromessi.

Temperatura tiepida, non bollente o gelida.


Ma io sono quella che dice "sì" o "no", non "forse".

Sono quella che odia l'aggettivo "carino".

Sono quella che c'è o non c'è.

Sono quella che se ama non si risparmia e se odia nemmeno.

Sono quella che non ama il lago perché non è dignitoso imitare il mare ma fermarsi a una pozzanghera.


O dormo o sono sveglia.

O piango o rido.

O vivo o muoio.


Conosco il colore delle sfumature, ma non lo scelgo.


Io so l'immobilità.

Il silenzio.

Il buio.

Il dolore.

Il valore deflagrante di una risata.


Non è obbligatorio seguirmi.

Lo è lasciarmi andare.


mercoledì 10 marzo 2010

martedì 9 marzo 2010

Lo straniero


Alte risuonavano le note di Oh Madre Mia nelle voci di Amilcare Ponchielli e Maria Callas. Attraversavano le pareti rimbalzando di scalino in scalino nella vecchia casa di città e poi invadevano il quartiere a grande forza. I vicini sopportavano pazientemente. In fondo solo di tanto in tanto di domenica mattina l’architetto alzava il volume e la lirica si ascolta così. In fondo l’architetto era una persona garbata, salutava sempre quando lo si incontrava per strada e poi si sollevava con uno scatto improvviso il bavero del cappotto color cammello. Da quant’è che abitava lì? Beh, saranno sette anni, almeno. Sempre lo stesso cappotto color cammello. Un’appendice del suo corpo. Impossibile pensare a lui senza immaginarselo nel suo cappotto, lungo ed elegante.
Quand’era arrivato lì, si pensava che fosse di passaggio, come gli inquilini che passavano sempre da quella casa, la casa di Giovanni. Giovanni, il benzinaio, quello che era stato coinvolto in quell’affare lì, quello delle case da gioco. Poverino, fare quella fine lì! Non aveva retto la vergogna. Si era sparato un colpo in testa una sera di dicembre di, quanto tempo sarà passato? Dieci? No, di più. Dodici anni, almeno. La famiglia aveva abbandonato il quartiere pochi mesi dopo e la casa, quella grande casa di città, era stata data in affitto. L’architetto era quello che si era fermato di più, lì.
La voce della Callas risuonava forte quando un trillo insistente lo richiamò alla realtà. Si scosse e lentamente alzò il ricevitore. Riconobbe subito la voce e capì dal timbro metallico che si trattava di qualcosa di serio. “Vieni”, disse Marta, “è ora di tornare”. Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Da tre anni ormai non la sentiva, mai.
Un solo cambio d’abito sarebbe bastato. Preparò il bagaglio. Spense lo stereo ed andò a prendere il treno. La stazione affollata, come sempre, accolse l’architetto. Fece il biglietto per Roma e aspettò l’intercity delle 18.00.
Sul treno si alzò il bavero del cappotto quasi a proteggersi meglio dal freddo. Ma non c’era freddo nello scompartimento. Il suo freddo veniva da dentro e da lontano. Appuntò lo sguardo fuori dal finestrino e rivide la casa di Roma, le alte porte laccate di bianco con i freddi pomelli, anch’essi bianchi. La luce che filtrava dalle persiane verdi sempre chiuse al mondo e lei. La rivide nei suoi gesti più consueti, quando con civetteria si scostava i capelli ramati dietro le spalle. La rivide mentre sorrideva al tavolo della sala da pranzo, mentre sorrideva a Tommaso, con quello sguardo di complicità senza fine, complicità da cui lui era escluso. Tommaso … Da bambino, era stato il suo idolo. Lui, le sue macchine sportive, l’ironia, l’intelligenza di Tommaso. Tommaso … L’avrebbe trovato lì? Ne dubitava.
Arrivò a Roma dopo circa un paio d’ore. Aveva fame. Si fermò a mangiare qualcosa, in un luogo di poche pretese. Tranquillo. Alla sua portata. Già. Cos’era lui, se non un uomo di poche pretese, in fondo! Così diverso da Tommaso, senza grandi ambizioni. Lontano dalle luci della ribalta. La ribalta!Lei era fatta per il palcoscenico. C’era una teatralità diffusa, sempre in lei. Sempre. Ma c’erano momenti in cui la sua forza di istrione veniva fuori quasi in modo furioso. Quando faceva tintinnare i cubetti di ghiaccio scintillante nel bicchiere, nella sua quotidiana sfida all’alcool.
Arrivò a casa che erano già le 23.00. Marta gli aprì la porta. Lui la guardò. Non era cambiata molto. Ci aveva pensato lei, gli disse. Aveva chiamato un’agenzia. Si erano occupati loro di tutto.
L’architetto diede uno sguardo alla casa. Com’era diversa rispetto ad allora! L’odore di piscio di gatti aveva invaso tutto lo spazio. Non più l’odore di lavanda dell’infanzia. Poi andò in camera. La guardò. “Sei ancora bella”. Pensò. “Bella come allora”. Chiuse la porta dietro di sé e disse a Marta: “Andiamo, torniamo domani per il funerale”. Uscirono per strada. C’era freddo. Una falce di luna splendeva nel cielo terso di marzo.

La Sedia

Come fa? Come accidenti fa?
Guardala, è serena, seduta di fronte, le braccia appoggiate al tavolo. Sorride pure.
Che cazzo hai da sorridere? Sembra una smorfia, quella!
Questa non è una situazione in cui si deve sorridere. Anzi, mi fa sentire a disagio, insieme a tutto il resto intorno. Le ho detto della sedia, di quanto sia scomoda, più volte, ma niente. Risponde che non c’entra, che non è la sedia, ma tutta la situazione. Per come siamo arrivati a questo, dice.
Mentre parla penso a come ho fatto a sposarla, cosa avevo in testa?
I soldi? Ne ho più io. La bellezza? Ce ne sono tante come lei, una o l’altra è lo stesso.
L’amore? Puttanate!
Forse le sue conoscenze, le connessioni con politici, imprenditori, gente che conta. Il giro giusto.
Si, forse.
Decido che non c’è, non voglio più vederla. E’ sparita. Sono solo seduto al tavolo, di fronte ho un fantasma, del brusio indistinto. Luce tremolante. Guardo intorno, magari mi distraggo un po’.
Accidenti a questo ristorante, finto antico, con le finte lucine di natale al soffitto che si accendono e spengono nervosamente. E le finte fotografie con i vip, tutte in posa. Tutti sorridenti. Finti.
Aspetta, chi ci ho portato qui l’ultima volta, un paio di mesi fa? Veronica? No, Cristina, quella con la erre moscia e l’accento inglese. Sorrido ripensando al dopo, arruffato.
E poi non è certamente un posto dove si possa parlare seriamente, questo, serve per cenare amabilmente, rompere il ghiaccio, scaldare l’atmosfera, preparare la serata. Il dopocena, il letto. Ma lei, quella che non dovrebbe esserci, non capisce, non capisce proprio e mi ha portato qui. In effetti in più di dieci anni non ha mai capito niente di come va il mondo.
Un momento, il fantasma mi sta dicendo qualcosa, concentrati, concentrati.
Ah, lo scopo dell’incontro. Parla di quello. Come se mi interessasse qualcosa.
Lo so, non devi ripetermelo mille volte, stronza. Lo so che vuoi lasciarmi, divorziare, prenderti questo, quello. Il gatto, la casa, la buca delle lettere. L’ho capito da un pezzo, almeno due o tre anni. Non sono certo stati i due mesi di separazione, e ci metterei due vigorose virgolette con le dita, a farmi capire che te ne volevi andare. E poi sai quante me ne sono scopate in questi due mesi.
Beh, sono state molte anche prima, se è per quello.
Stasera quello che mi da sui nervi è la tua calma. Parli, parli, senza neppure increspare le labbra, l’espressione sul viso rimane serena, sembri Siddharta sotto l’albero, alla fine del libro. Perché? La situazione non è normale. Dovrebbe uscirti una qualche emozione, un cazzo di tic almeno. Niente. Perché? Magari hai già un altro,
Già! Vero! Ecco perché sei cosi calma.
Stronza. Prendo una forchetta, te la punto contro e balbetto qualcosa, ora basta, ora basta, ma non c’entra nulla con quello che penso. E, credimi, non vorresti proprio sapere quello che penso, sappi solo che è tinto di rosso e tu sei distesa, immobile.
Cosa dice? Che devo accettarlo. Accettare cosa? Ah, si riferisce al divorzio, la separazione. Ti urlo che non me ne frega niente, ma solo dentro di me. Fuori non serve.
Non hai mai capito un cazzo di come sono fatto. Mai.
Prenditi tutto, vattene, sparisci. Non esisti, non esisti più, sei solo un fantasma.
Un ricordo. Passato.
Ed è ora che dia un occhiata al menù, cosa ordino? Ravioli dello chef, che vuol dire? Meglio le pappardelle al cinghiale. Poi una fiorentina. Carne fresca.
A proposito, c’è quella tizia, come si chiama? Quella che lavora in amministrazione. Mi lancia sempre delle occhiate e sorride. Flirta, sicuramente. Ci penso io, cara, a farti sentire bene, prima, dopo, durante. E’ una impressionabile, la porto qui, in questo posto costoso, crollerà sicuramente. Quel tavolo appartato laggiù in fondo, potrebbe andar bene, è intimo, crea l’atmosfera giusta. Domani la chiamo e poi prenoto l’albergo.
Ora però non roviniamo del tutto la serata, mangiamo qualcosa.
Cameriere?

Ho sempre accarezzato l'idea di una raccolta di racconti, il titolo sarebbe: "Con un'immagine negli occhi scriverei per sempre". Questo è uno, scritto durante la frequentazione della Scuola Holden, a tema.

domenica 7 marzo 2010

la luna (ballata)

La luna



Come dice il vecchio saggio? Se indichi la luna a uno stupido, lo stupido guarda il dito.

Perché non è mica facile guardare la luna.

Molto più rassicurante guardare il dito che la indica.

Attorno al dito sta aggrappato lo stupido.

Il temerario guarda la luna, e le sorride.

Non sempre accade il contrario, che la luna sorrida, ma tant'è.


Tu mi sfidi, mi inviti.

Io ti seguo perché forse sarò stupida ma è la luna che voglio guardare.


Non ho la tua forza.

Le energie, spesso, se ne vanno nella ricerca del respiro che sembra sprofondato in un pozzo.

Ma io cerco la luna nel pozzo, quindi è perfetto.

La cerco per raccontarle le mie storie.

Chissà se mi ascolterà?

E se non lo farà lei, qualcuno, di certo, ci sarà.

Uno sprovveduto.

Un pazzo.

Un sognatore.

Un temerario, che punta il dito al cielo e sorride alla luna.



Vivere per interposta persona... o cosa.

"La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con se l'annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi, e quando sarà passata non ci sarà più nulla, soltanto io ci sarò." F.Herbert, Dune.

Ci sono periodi in cui dai in gestione la tua vita ad altri.
Non si tratta di persone, no. Di quello ti sei stufato.
Tutto ciò che hai bisogno è un lungo respiro che ti ossigeni un po' e una pausa che possa rimettere le cose al loro posto. Fuori di te, dentro di te... non ha molto importanza, semplicemente ristabilire il tuo panorama privato che hai sempre visto o sognato. Quella baia, quella montagna, insomma il posto che ti porta serenità, la tua casa interna.

E allora consegni, chiavi in mano, il tuo tempo a un libro, a una tastiera musicale o alfanumerica, a un film, a un telefilm. Si dice evasione, chiamala se vuoi "non pensare". Solo che non pensare e basta è impossibile.
Però sarebbe bello.

Disconnessione del sistema in 5 secondi... 4... 3... 2... 1... Disconnesso


(in sottofondo il nulla assoluto)

Riconnessione del sistema... accesso effettuato.

Ci ho provato, ma non ho sentito nulla.
Comunque, dicevamo.
Ecco, questo tempo che lasciavo ad altri lo sto delegando a certe persone e ai loro pensieri. Persone distanti fisicamente e temporalmente che escono dalle pagine fresche o dalle note uniformi. Persone di cui ti puoi fidare e che ti insegneranno sempre qualcosa, e questo conta, lo sa Dio quanto conta. Persone che, al massimo, potranno deluderti per quel pezzo, o quel paragrafo, tuttalpiù per un libro, ma che mai! mai! potranno farti del male.

Ci sono molte cose a cui puoi consegnare la vita: ad una strada, a "un ago e al danno fatto", a una lacrima, a un viaggio, a una stanza vuota, a un dolce, al rosso corallo, a un binario, all'acqua della vita, a un disegno.
L'abbraccio è saldo perchè voluto, cercato.
Il liberarsi è difficile. Attenzione.

sabato 6 marzo 2010

Angoli

Cheppoi di angoli nella mia vita ne ho svoltati tanti, e ho detto "svoltati" e non "voltati" perchè è un tipico piemontesismo, ma l'azione si è spostata di un centinaio di chilometri e, se credete, anche di soggetto. Tanto la magia può fare, se voluta, qui a Torino. Di persone importanti dietro però pochine, ma comunque sempre più importanti, per quel tratto di strada.

E allora dicevamo di angoli, come quella volta che ero tremante appoggiato ad un'albero ad attendere la mia esecuzione e invece scoprire che di altre cose si può morire. Cose dolci e un pò amare come Nostalgia di Sylvian, con quel sapore inquieto che mi ha accompagnato sempre nella mia vita con lei e anche dopo. Ma era comunque l'inizio dell'inizio e ci aggiungerei ancora un "dell'inizio", per quel che di stupendo è arrivato poi. E sembrava essere lei in tutte le cose che facevo per la prima volta, come quel posto... aspetta: casa, o come la chitarra imbracciata a cantare una ninna nanna. O come quel viaggio in germania e quella candela accesa, e quei cucù che non stavano mai fermi, oggi sepolti in chissà quale cantina.
Non era lei.

Quel muro liscio, a Berlino dieci anni dopo, dove canticchiavo "I'm ready, i'm ready for the laughing gas..." pensando a Piazza Statuto divisa da una barriera ad impedire l'accesso a via Garibaldi, all'altro settore. "You are entering the 2nd sector", stai entrando nel secondo settore della tua vita, un noi diverso, complicato, che fa male. Degno della psichedelia più pura e schizoide. Tutto mi sembrava elevato all'ennesima potenza, in ogni alto, in ogni basso, in ogni parola. E parlavamo veramente tanto da non smettere mai, forse perchè non c'era tempo e quello avanzato era veramente poco. Non sembrava noi, non poteva esserlo.
Non eravamo noi.

E quella sera, tra Trento e Ala in autostrada, che mi sentivo forte con te "mille anni al mondo mille ancora, che bell'inganno sei anima mia e che bello il mio tempo, che bella compagnia", e ci regalai quel magnifico castello a forma di nave come vista eterna di noi e di altre due anime. E quella sera che mi facesti promettere sul futuro anche se uno di noi non ci fosse stato. Dovevi essere tu. Doveva esserci tempo, come la canzone di Fossati, a garanzia di ogni possibile futuro, tranne proprio quello che ci siamo ritagliati alla fine.
E comunque non era nemmeno quello

E stasera un tè preparato lentamente sui Marlene Kunz mi fa pensare al prossimo angolo che forse arriverà, senza cercarlo più di tanto. E con il rum in mano penso che se non arriva non importa, anche se un caleidoscopio vorrei tanto poterlo regalare...

giovedì 4 marzo 2010

Ce l'ho fatta!!!

Ce l'ho fatta a postare il video e per questo è un giorno perfetto!!



Perché l'ho scelto? Perché dopo aver chiaccherato con un'amica cara - e chi sarà, chi sarà??? :) - al telefono mi sono ritrovata queste note nella testa. Mi sono detta che un motivo ci sarà. Se tutto è perfetto così com'è, in qualche modo, con questa canzone posso presentarmi.
E' per voi, che sia un giorno perfetto ogni giorno.

piesse: grazie Mauri che, per caso, hai chiamato proprio mentre cercavo di capire, senza riuscire, come inserirlo. L'amica cara, al telefono, mi aveva proprio suggerito di rivolgermi a te. Come vedete, tutto è perfetto. :)

martedì 2 marzo 2010

Una lettera possibile

...le serate passate in queste giornate di festa mi hanno definitivamente convinto che l'essere ciò che sono, il sapere sempre indovinare, un attimo prima, quello che sta accadendo, è un dono prezioso. Che si paga a caro prezzo...so che puoi capire cosa significa essere così tanto nel mondo da esserne fuori. E' una sensazione pazzesca, è stare in uno spazio in cui mi accorgo che le parole servono soprattutto a chi ha poco da dire, o forse a chi ha tanto da "non dire". Allora mi sembra di volare al di sopra di me e di tutto, e guardare la pista, le piste che sono segnate, e sapere che l'unica giusta è quella ancora da tracciare. So che essere li davanti è dura, ma non potrei mai più tornare indietro. E so che tu sei li davanti, da qualche parte, in quella stessa improbabile terra...
Cazzo se mi piace, cazzo se mi addolora non riuscire più ad essere solo "uno" ma sempre "due", pur restando semplicemente me stesso...
Ogni volta che ti incontro, so di incontrare uno che vive la mia stessa follia. Quella stessa irrinunciabile ebbrezza che da l'essere ciò che si è. Lo stesso crudele, pazzo piacere di godere nel capire che c'è solo da vivere. E il capire è soffrire! Indicare le strade al mondo può apparire delirio di "deità", invero è soltanto alibi per l'incapacità di dividersi completamente con gli altri, perchè già divisi in se stessi, consapevolmente...
La mente che non mente più, che non cerca scuse al suo bastarsi da sola.
Sono pazzo? Può darsi!
Vorrei non esserlo, vorrei di nuovo immergermi nella storia con un altro, con gli altri, ma mi accorgo che ogni fottuto passo mi avanza di un passo, e non mi fa tornare indietro, per quanti sforzi io possa fare. Adesso so che quello "sguardo altrove" era e sarà sempre il mio sguardo. Quello che mi fa sempre piùì amare da tanti, tanto amare da finire odiato...
Ho tutta la forza delle mie debolezze, tutto il sapere il mio "non sapere un cazzo di nulla", il capire che c'è solo da vivere ogni momento come fosse l'ultimo. Con il progetto di domani, certo, ma completamente oggi, appieno. Senza più aspettative , illusioni.
Vivere appieno, fino alle ossa consumate nelle carezze, fino all'ultima stilla di sperma versata nel corpo di un altro o un'altra, fino alla consumazione di me prima che il tempo mi consumi a mia insaputa.
Sto scrivendo mentre scocca la mezzanotte. La mia ora da quando sono nato. L'ora in mezzo tra un giorno e un altro, che non è più ieri e non è ancora domani. Io vivo a quest'ora da sempre. Non ne posso più!
So che mi passerà, che me la farò passare. Ma proprio il saperlo mi spinge ancora di più in un luogo dell'anima tremendamente neutro, che non è piacevole, ma neppure orribile. Che non fa bene, ma neanche male. E' solo inutilmente piatto, senza alcun picco di nulla. Un luogo dove sono costretto a inventare scalate o scavare gallerie, per sentire dislivelli che non mi appartengono più.
Mi vorrei incazzare e mandare affanculo qualcuno, o forse tutti. Oppure amare come un prete idiota. E invece sono nel limbo. Invece sono forse semplicemente un uomo, con il problema di non saperlo essere più appieno...
Sono così terribilmente da solo...
Forse dovrei liberarmi, fare la "resistenza", ma solo contro me stesso.
Intanto mi rivolgo a te, senza sapere cosa dirti o non dirti. Senza sapere neanche tu chi sia, o se tu ci sia da qualche parte. Ti uso semplcemente, come s usa un tovagliolo per mondarsi la bocca mentre si vomita.
Cacchio, non ho neanche la la forza di immaginarti come uno che mi debba aiutare. Penso che ci sia chi ha più bisogno di me del tuo aiuto...e allora mi tiro da parte, mi vesto di una forza che, porca miseria, non ho. E soffro da morire quando mi accorgo che il mio farmi da parte, il mio mettere in un angolo la mia pena per dare spazio a quella degli altri, viene scambiato per presunzione, spocchia.
Come faccio a tornare indietro adesso? Dove torno?
Non ho mai amato viaggiare volgendo le spalle alla meta, ne' posso viaggiare guardandola avvicinarsi, perchè non credo più ad una meta. Credo solo al mio star viaggiando, da solo accanto ad altri uomini soli. ER la voglia di dirmi che siamo insieme, la fede nella mia fede è svanita da tempo. Tuttavia non ho voglia, ne' sufficiente arroganza, per dire a quegli uomini soli che viaggiano insieme, che è solo illusione.
Mi resta il senso di appartenermi, la sensazione di amare e non saperlo dire. L'ignoranza della mia capacità di comunicare cose che non dovrei, e che invece pare vivano di vita propria, e vadano da chi non vorrei, si rifiutino di raggiungere chi vorrei.
Amo sempre chi so che non mi amerà, così sarà colpa sua se un giorno me ne andrò, con l'alibi di non essere stato amato a sufficienza, non essere stato compreso.
Mi dico che non ha senso, non da soddisfazione amare chiti ama a prescindere. Vorrei riuscire a farmi amare da chi mi detesta, dirgli che lo detesto mentre o stimo e lo amo per avere il coraggio di essere quello che è, senza curarsi di me. Quando questo è accaduto, ho accelerato verso un altro me, più estremo, per provare fino a dove l'amore di chi diceva di amarmi mi avrebbe potuto seguire, o per provare a me stesso di poter seminare qualsiasi "inseguitore".
Vigliacco!
Non chiedo mai ad alcuno di provare a compiacermi. Piuttosto mi sento felice quando vengono disattese le mie aspettative, perchè se così non fosse verrebbe corroborata la mia presunzione di aver capito tutto. Non sarebbe altro che rinforzare le mura della mia casa interiore, trasformarla in castello di sabbia piuttosto che torre d'avorio. Destinata a sciogliersi, a disfarsi alle prime lacrime che, inesorabili aspettano che io mi creda al sicuro per poter poi tracimare.
Quando amo mi danno, pensando di non fare abbastanza per chi amo, credendo di coccolare solo il mio "voler essere" innamorato.
Stanotte lui dorme, o forse no. E io penso se mi pensa, se è soddisfatto, se mi desidera o desidera solo qualcuno, uno qualsiasi, che lo ascolti, lo soddisfi nel suo bisogno di essere con qualcuno accanto.
Riesco sempre ad amare chi non fa nulla per non apparire detestabile, perchè anche io non voglio essere amato per le mie cose belle. Voglio che mi si ami per le mie nefandezze. Che chi lo fa sia capace di farmi sentire che non vuole cambiarmi, trasformarmi nella sua idea.
Io amo così, senza volere che chi amo sia diverso da come è...
Scrivo come se scrivessi a qualcuno e invece scrivo a nessuno. Comunque, chiunque tu sia, scusami per questo sfogo. Davvero non ce la facevo più a tenermi dentro questo mare di "non so cosa" che mi stava affogando. Non mi andava di travestirlo da racconto, avevo bisogno di rivolgermi a qualcuno...e sei uscito tu dal mazzo. E il mazzo è pieno di carte, ma se sei venuto fuori tu, un motivo deve esserci. Perchè credo, "devo" credere, che tu sappia di cosa vado parlando quando dico queste cose. Sono certo che sai cosa è toccare il proprio dolore, prenderlo tra le mani, palparlo, sentirne la consistenza, la durezza o fragilità, e rendersi conto di non poterlo consegnare a nessuno mai...solo diluito forse, o corazzato, ma mai completamente.
Questa sera avevo bisogno di poterlo toccare ancora, come lo tocco ogni fottuto giorno, e insieme mostrarlo a qualcuno che fosse sufficientemente forte da poterlo, contemporaneamente "sentire" e sopportare, non supportarlo.
Altri lo avrebbero solo sopportato, mi avrebbero dato ascolto mantenendo le distanze...o forse mi avrebbero supportato, e allora non avrebbe avuto senso mostrarlo.
Sentire dolore è sentire amore che fugge, amore che manca al momento, ma che da qualche parte esiste. Senza dolore niente amore. Un supporto al dolore è un lenimento dell'amore, non è più amore che ama. Voglio invece continuare a sentirlo come lo sento, e insieme sperare che un altro lo senta, a lmeno sappia di cosa vado dicendo, soffrendo, piangendo.
E non il suo dolore come il mio dolore, ma il mio che va da lui, come da me vengono quelli di tutti. Anche quando non li voglio, quando navigano fiumi di lacrime mai pianti. Sentire che sente.
Non è psicosi, non è invasione del pensiero, non è presunzione di poterlo leggere. E' qualcosa che è vero come solo le cose di cui si è insicuri possono essere.
Non ho la certezza di sentire, bensì il dubbio di essere in grado di farlo. Allora non è follia, perchè non è certezza.
Mi piace credere che tu sia come me, che il dolore degli altri tu lo senta imergendoti dentro di esso, facendolo tuo. Io lo faccio ogni giorno, forse per dimenticarmi del mio, per coprirlo.
Stanotte chiedo a te, per dieci minuti, di immergerti nel mio e liberarmi un poco. Non rileggerò quanto ho scritto, quindi perdona qualche errore di forma o "orrore" stilistico...se rileggessi non ti darei questa lettera, per pudore, insensato forse...ma so che sai di cosa parlo.
Perchè se stai leggendo, se stai annegando in questo mare di parole, non hai un altrove dove spendere il tuo tempo, dove farlo vivere senza che tu ti impegni a dargli una direzione. Perchè, forse, anche tu non hai chi ti prenda per mano e ti conduca a se'...
perchè forse anche tu sei solo un uomo solo come me.

Trova le differenze ...


Comunicazione più o meno di servizio.


Com'è il tuo occhio? E' allenato a vedere le differenze? E inevitabilmente qui spunta l'immagine della Settimana Enigmistica. Ebbene sì, ho fatto ordine tra le etichette. Le ho eliminate tutte a parte i nostri nomi. Cominciavano a diventare troppe e allora mi sono messa al lavoro e le ho tolte. Spero che non me ne voglia nessuno, ma io sono l'amministratrice qui e in quanto amministratrice qualche libertà me la concedo. Sono rimasti solo i nomi dei postanti, tutto il resto in fondo è etichettabile sotto un'unica grande voce: "Vita". Poi ho anche "giustificato". Sì, lo so. Sono assurda. Ma ho come l'impressione che sia tutto più leggibile se "allineato". Piccole manie che spero vogliate perdonarmi. Fossi così puntuale e precisa nella vita come nei blog. E invece no. E' esattamente l'opposto. Quantomeno dipende dai periodi. Ci sono dei momenti in cui m'innamoro dell'idea dell'ordine, in genere quando diventa difficile vedere anche la mia stessa faccia nello specchio, tanto è il caos che mi circonda. Quando arrivo a quel punto decido che è l'ora della svolta e comincio a progettare di mettere mano alla mia valigia degli orrori e ai cassetti del carrello porta TV. Poi mi rendo conto che è prematuro mettere mano a quell'orrore e allora mi oriento verso le pile di biancheria da lavare e possibilmente da stirare. E dopo avere pensato di gestire le pile, sono talmente esaurita che ... mi tocca rinviare il tutto a momenti più propizi. Mah ... che ci dobbiamo fare? Non ci resta che aspettare il miracolo e consolarci con qualche pasticcino qua e là, tanto per gradire.
___
P.S. Fanno parte integrante del post i pasticcini a sinistra del testo (servitevi pure che dopo vediamo le differenze!) e il video musicale a destra del post. Guardatelo perché è davvero carino. Non potete perderlo. Fate un atto di fiducia. Non ve ne pentirete. ;)

lunedì 1 marzo 2010

Valentina prendeva il treno


Quand'ero piccola trascorrevo molto tempo con mia nonna.
La mia nascita era stata risolutiva per molte aspettative e molte persone: per i miei genitori, che con me avevano compensato, per quanto possibile, la morte del primogenito; per mia nonna, che aveva trasferito il suo amore ossessivo da mio padre a me.
Così prese a sequestrarmi spesso, quando, cioè, le veniva la mattana improvvisa di andarsene al mare.
Mio padre, avrò avuto non più di tre o quattro anni, mi aveva regalato una bambola bellissima, una delle prime bambole parlanti. Si chiamava Valentina, aveva un caschetto biondo platino, un vestitino rosa e le scarpette bianche. Dietro il collo un anello di plastica collegato ad un filo.
Io tiravo e lei, senza espressione, mi diceva:" ciao, mi chiamo Valentina, e tu?". "io Nita", le rispondevo, convinta di un'interazione che allora mi pareva possibile.
La amavo tanto, quella bambola, più di qualunque bambola avessi mai avuto.
Mia nonna, però, temeva che potessi sciuparla, e allora imbastì una storia pazzesca (oggi diremmo fiction) per preservare il giocattolo dalle mie manine iperattive.
- Nonna, dov'è Valentina? Non la trovo.
- Ah, hai ragione. Valentina ha preso il treno ed è andata a Roma.
- A Roooomaaaa? Ma perchè? Qui non stava bene?
- Certo che qui sta bene, ma lei lavora: fa l'impiegata.
- A Roma?
- Sì. Vedrai che torna sabato.
Aspettai una settimana lunga un secolo. Credevo ciecamente a quella favola, ma temevo che lei non tornasse mai più.
Invece il sabato successivo nonna mi prese per mano e mi portò vicino al cancello: Valentina era lì, e mi sorrideva.
La abbracciai forte e trascorsi, con lei, il primo di una lunghissima serie di finesettimana che sarebbe venuta a trascorrere con la sua amica "di carne vera".
All'inizio della settimana la accompagnavo lì dove l'avevo ritrovata: sapevo che l'avrei rivista presto.
Non so, poi, che fine fece. Per quanto mi sforzi non riesco a ricordare più niente, a parte lei in tutti i particolari, gli arrivi e le partenze.
Magari un bel giorno si innamorò e decise di rimanere a Roma per sempre.
Sorrido, mentre ne scrivo, perchè proprio ieri, a pranzo, mia madre ha ricordato l'episodio.
Sorrido anche perchè, della mia infanzia, ho ricordi molto belli: i problemi sarebbero arrivati, copiosi, solo qualche anno dopo.
Intanto la giornata è volata.
A voi auguro una settimana di ritmo e allegria: abbiamo appena incominciato.