Il ponte

Il ponte
Quadro di Enzo De Giorgi

lunedì 15 novembre 2010

C'è tempo



Ah il tempo, il tempo!!! Credete che sia stato facile??? Ebbene no. E' stata un'impresa quasi eroica postare questo video. Il problema? La password. E chi se la ricordava più ... prova che ti riprova e tenta che ti ritenta sono riuscita a farla riaffiorare. E quindi vi regalo questo video e le insuperabili opere di Enzo a cui i tre lettori abituali di questa casa pressocché abbandonata sono già avvezzi. Sono le prime righe che scrivo da qualche mese a questa parte. Scusate quindi lo stile un po' maldestro. Un saluto a chiunque si trovasse a passare di qui. :)

mercoledì 6 ottobre 2010

Percorsi zen e supercalifragilistichespiralidosi eventi

[Immagine: Jeff Wall]



Un tale che osservo da un po’, tutte le mattine compie gli stessi movimenti, percorre lo stesso percorso, svolge le stesse attività; eccezion fatta per il sabato, la domenica e i giorni festivi. Anche in questi tre casi, però, tutti i sabati, le domeniche e i giorni festivi, sono vissuti allo stesso modo. Qualcuno direbbe:”Se sei un po’ nervoso un motivo ci sarà”[cit]. Quel tale, però, è calmissimo: un uomo zen! Io, sarei nervosa, lui,è calmo. Beato lui. Beato lui? No, che dico? Mi giustifico così: dire qualche idiozia mi allontana da “quel tale”! Sapete, la lettura de “La coscienza di Zeno” o de “L’idiota” o, preferibilmente, di entrambi, può cambiarti la vita. Forse la cambierebbe anche al “tale”, probabilmente, uno di questi giorni glielo dirò, gli comparirò davanti all’improvviso, gli sbarrerò la strada e gli affonderò tra le braccia i due romanzi dicendogli: “Sarai un po’ nervoso ed un motivo ci sarà”. Forse no. Forse li leggerà e, quando avrà finito, inizierà a rompere gli schemi, a stravolgere la sua vita zen rendendola una vita supercalifragilistichespiralidosa. Forse non sarà neppure “un po’ nervoso per chissà quale motivo”. L'ho fatto...Patapum! Un ruzzolone. Me l’aspettavo, lo aspettavo. Il “tale” non ha retto l’affondo dei romanzi, è a terra, mi guarda impietrito e, senza dire una parola, abbandona il mio prezioso regalo sull’asfalto e va via indignato, percorrendo lo stesso, immutabile, medesimo…insomma, noioso percorso.Non riesco a staccare lo sguardo dall’asfalto, mi concedo una fugace occhiata al tale che va via: stesso passo, stessi movimenti, stessa strada, stessa…Sorrido, guardo l’orologio del campanile della chiesa e sorrido: il tempo! Danzo al suono dei rintocchi dell’orologio e penso: il tempo!In quel preciso e oliato meccanismo sono riuscita a mutare l’elemento più prezioso: il tempo!Il tale non è più zen, sembra nervoso ed io ne conosco il motivo, sorrido ancora raccogliendo i miei due preziosi romanzi e vado via pensando: “ Ho dimenticato Mary Poppins! “La coscienza di Zeno” o “L’idiota” o, preferibilmente, entrambi possono cambiarti la vita, ma senza un poco di zucchero e il coraggio di tuffarsi in un disegno a gessetto, la pazzia e l’idiozia mancano di qualcosa. Non è necessario capiate. Non era necessario neppure scrivere, forse. Forse, perché questa storia io volevo raccontarla anche solo per far dispetto al “tale”, anche solo per farlo ruzzolare. Patapum!


Ringraziamenti:

ringrazio Svevo e Dostoevskij per tutte le volte che mi hanno dato spunti supercalifragilistichespiralidosi e mi dispiace davvero tanto non poter trascorrere una serata in loro compagnia.ringrazio Ligabue, perché "Vivo morto o X" ci sta sempre.
ringrazio Jeff Wall per aver riassunto la mia storia con un solo scatto e Sario per avermi fatto conoscere Jaff Wall e questa foto che è la sua preferita.
ringrazio la mia maestra delle elementari per tutti i temi idioti che mi assegnava.
ringrazio Mary Poppins, perché senza di lei il "tale" non so proprio dove avrei potuto pescarlo.
ringrazio me stessa per riuscire a pescare senza mai averlo fatto.
ringrazio anche mamma per la parmigiana che sta cucinando
....poi, vorrei ringraziare anche tante altre persone, ma ho sonno, non se l'abbiano a male.







sabato 24 aprile 2010

Rote Sterne




Kata Tjiuta

Kata Tjiuta è il nome con cui viene indicata la figura dello Sciamano dagli aborigeni australiani. La traduzione suona come “ Molte Teste” e sta ad evidenziare la capacità dello Sciamano di racchiudere in sé tante coscienze, la sua e quella dei progenitori, caratteristica che gli consente di avere e mantenere il ruolo di guida spirituale e punto di riferimento, per sé e il suo popolo. Che gli assegna il compito di trasmettere il suo sapere agli iniziati, e garantirsi così la sopravvivenza, la possibilità di poter morire senza mai perire. Mi vien fatto di pensare che un uomo davvero libero è colui il quale riesce ad essere Sciamano a sé stesso, ed iniziato egli stesso. Colui che fa del passato uno strumento con il quale costruirsi un futuro, che assorbe l’esperienza trasmessagli e quella esperita in prima persona, che si affranca dall’appartenenza intesa come vincolo irrisolvibile verso il cambiamento. Colui che tiene presente il passato come non mutabile, certo, ma sicuramente mutuabile nel presente. Il passato quale àuguro di un presente e un futuro con connotazioni proprie, a loro volta mutuabili nel futuro di sé.



“Rote Sterne, weisse wine”


…e solo i “pazzi” sono in grado di dare davvero amore non mediato dalle convenzioni dei rituali. I “pazzi”, l’unica categoria rappresentata da individui davvero tali, non omologabili, uomini sovente ghettizzati e etichettati, per la convenienza a la salvaguardia delle coscienze dei “normali”, che non sono poi certo lo siano affatto. Io, un “pazzo”, uno di loro, uno “fuori”, nel senso di oltre, al di là, in una dimensione diversa, in un nuovo luogo dove siamo tutti armoniosamente soli insieme. Dove la consapevolezza della solitudine diventa valore inestimabile, e ci permette di scambiare, in un baratto ideale, le nostre più grandi ricchezze, le nostre emozioni.
Io, perso nei miei pensieri, sospeso fuori dalla finestra, che guardo dentro, dove tutti i “non folli” si arrabattano alla ricerca di una uniformità impossibile e irrealizzabile, perché non naturale, e si battono, e inventano mille nuovi assiomi, che lo sono solo per loro che necessitano di guide scritte, spesso da altri, forse perché incapaci di trovarne dentro di sé. Pagani inventori di un dio unico per tutti, e invece dio è unico solo per me, ed è diverso dal dio unico solo per te, e questo li rende uguali, semplicemente perché ugualmente diversi. E penso…solo i “pazzi”, quelli capaci di continuare a credere fino alla fine, quelli capaci con un sorriso di dare sé stessi completamente, un sorriso pieno di dolore, di malinconia. Capaci di dirti :”ehi, guarda che ci sono anche io in questo deserto, ma non per questo lo rendo meno deserto per me, ne’ per te”. Un deserto e il suo calore, un deserto fatto di anime arse dal fuoco fioco delle relazioni dovute e non sentite. Assorto dentro i miei pensieri, seduto in questo bar, in un luogo sospeso in un tempo che non c’è, un tempo suo diverso dal mio.
Il “Rote Sterne” è una struttura di pietra che ha almeno duecentocinquanta anni, e insiste in un territorio preciso, Marburg, cittadina universitaria nell’Essen in Germania, ed è qui da sempre e ci resterà, mentre io sono un corpo semovente con una mente che insiste in sé stessa, che può spostarsi in un nonnulla altrove. Questo pomeriggio mi sono parcheggiato qui, con in mano un bicchiere di Porto Vasconcellos di Vila Nova da Gaia, bianco, invecchiato, capace di raccontarmi la storia del falegname che ha costruito la botte in cui è maturato, di farmi sentire le cicatrici sulle sue mani che diventano le mie mani, con le quali mi ritrovo a stringere la mano annerita dell’uomo che ha staccato le pigne d’uva dalla vite, di portare al mio olfatto l’odore del seno di latte della madre dei suoi figli, alla sera quando, dopo una cena consumata in fretta, vi nascondeva il volto e si addormentava, diventando lui stesso il figlio della sua donna. Un vino capace di staccare un ricordo dalla mente e ri-portarlo dinanzi ai miei occhi, di regalargli una vita propria e renderlo capace di raccontarsi a me che l’ho partorito…e rammentarmi di quell’anno passato in Portogallo, tra Lisbona, Porto, Coimbra e la casa di campagna di Oliveira de Azemeis. Con l’amore di Juan e lo spettro della morte di Angel, volato via a cavallo della disperazione per aver contratto l’A.I.D.S., sospinto nel vuoto dal rimorso sposato al non rimpianto. Per aver semplicemente vissuto la vita, l’unica che ha avuto, come ha potuto, come ha saputo, come aveva imparato a viverla da solo considerato che nessuno gli aveva mai insegnato, e chi e come avrebbe potuto farlo, in che maniera viverla. Angel che vive pur essendo morto, perché è dentro tutti noi che l’abbiamo incontrato. Angel il cui sorriso continua a illuminare le mie notti buie, e darmi gioia e forza…E ritorno in Portogallo, ri-vivo quei tempi, quelle notti e quei giorni, e lo sento Angel, che ci esorta, Juan e me, a viverci ed amarci se lo vogliamo davvero.
“Presto, facciamo presto, viviamo intensamente le nostre vite” ci dicevamo Juan e io. “Facciamolo ora, e lasciamo fuori da noi le nostre paure, e i loro giudizi affrettati…e stiamo attenti, e smettiamo di immergerci nell’eroina, saliamo di nuovo in superficie a goderci il sole di questa meravigliosa terra”. E allora scendevamo in garage a prender l’auto, e correvamo con il vento nei capelli e nel cervello, a spazzare le polveri inquinanti delle maldicenze, e dei nostri pregiudizi verso chi ritenevamo ne avesse, inconsapevoli di essere i proiettori di noi stessi sullo schermo delle espressioni altrui.
Via di corsa sino alla lunghissima spiaggia di Espinho, via tutti gli abiti, via anche le mutande e di corsa nell’acqua gelida dell’Oceano Atlantico, dove restavamo immersi sino a che non sentivamo di aver spurgato le nostre anime da tutto lo sporco, di nostra produzione e residuo di quello tramandatoci dai nostri avi con le loro tradizioni, i loro miti, le loro appartenenze che ripudiavamo ma a cui, sovente, soggiacevamo nostro malgrado. E poi, seduti stretti l’uno all’altro, sotto l’accappatoio, sulla sabbia calda, ad aspettare la bassa marea, sino al calar del sole. Solo allora, quando le acque si ritiravano di quasi un chilometro, scoprendo il territorio lunare sotto la superficie e trascinavano nel profondo del mare le nostre scorie, ci sentivamo finalmente liberi di volare. E dimenticavamo il mondo dietro le nostre spalle, e disegnavamo la nostra “neverland” sull’orizzonte rossastro, e incontravamo di nuovo il caro Angel, finalmente libero, prima che dalla malattia, dai suoi rimorsi. E restavamo ad ascoltarlo, in silenzio, mentre ci sussurrava di non averne di rimorsi, almeno noi, di non procurarcene. Quasi a supplicarci di non sprecare tempo. E sentivamo che la sua supplica altro non era che la nostra supplica a noi stessi, a trovare quel coraggio per essere fino in fondo.
Solo allora ci alzavamo, infreddoliti, ci rivestivamo e andavamo a rifugiarci in un piccolo localino sul lungomare a mangiare pesce cotto alla brace o “bacalao brasa”, e poi a imparare, ad ascoltare e ballare strazianti Fado in qualche vecchia bettola, piena di anziani pescatori anneriti dal sole, bruciati dal sale, e vecchie meretrici incantatrici. A nutrirci del loro sguardo infinitamente blu, della loro esortazione a essere capaci di resistere e provare a diventare vecchi come loro, sapienti come loro, a ritornare bambini come loro, così tanto pieni di vita vissuta da essere diventati finalmente leggeri. Allora, quando tornavamo a casa, nella vecchia casa di Oliveira de Azemeis, ci addormentavamo consapevoli di stare a sognare lo stesso sogno, a credere che questo lo potesse trasformare in una quasi realtà. A crederlo sino al mattino, quando prima la tosse poi i conati di vomito, ci facevano scattare sull’attenti. “Passa el mono, la scimmia, e dobbiamo prostrarci ai suoi piedi” e penetrarci, non più con i nostri membri ma con gelidi aghi di acciaio, e inondarci di caldo liquido ambrato. Che momenti terribili, momenti terrifici, quando senti che non ti stai amando, e hai un bisogno disperato di essere amato da qualcuno fuori di te…era allora che il nostro amore diventava imprescindibile per sopravvivere, per continuare a “credere” in un futuro diverso, per mantenere in vita il folle progetto di ri-generarci nuovi. Ragionammo Juan e io, e capimmo che la nostra possibilità di salvezza era solo una. Era aprire il baule dove erano seppelliti i nostri dolori più profondi, era armarci delle nostre forze residue, brandire le poche armi rimaste con coraggio, e affrontare i mostri. In una battaglia campale, con ferite le cui cicatrici mai si sarebbero potute, ne’ dovute, cancellare, perché monumenti alla forza, al sangue, alle lacrime. Sepolcri dei nostri tanti io fasulli, affrontati e sconfitti.
“Ma quanti cazzo sono, quanti siamo qui dentro di me, quanti siete dentro di lui,quando finirete di moltiplicarvi” ci chiedevamo.
E ogni giorno un nuovo insegnamento che arrivava da un nuovo fallimento, sino a capire che era il momento di riempire i vuoti interiori dentro cui i mostri nascevano, si fecondavano, si moltiplicavano. E ci domandavamo cosa ci servisse, di cosa avessimo bisogno.
“Di cosa sei vuoto Juan? Di cosa hai bisogno davvero? E io ? Cosa mi serve ?”.
“Andiamo a riempirci di quello, e facciamolo sino a che asfissieremo la madre dei mostri, e facciamolo insieme sino a quando avremo le stesse mete, e quando non saranno più le stesse per entrambi, allora copriamoci con la coperta del nostro amore, affrontiamo l’inverno gelido del peregrinare solitario che ci attende, ma andiamo !”.
Cazzo se siamo andati, così tanto lontani, prima insieme e poi da soli, da essere tornati. Tanto lontano da ritrovarci seduti qui a Marburg io, a Madrid tu.
A questo tavolino del Rote Sterne di Marburg io, e in un chiringuito al Parque de El Retiro di Madrid tu. A bere lontani, eppure insieme, questo splendido Porto invecchiato.
Insieme lontani, e attorno a noi i pescatori anziani e le meretrici incantatrici delle notti di Espinho, e Angel, e tutti quelli che abbiamo attraversato e ci hanno attraversato. Tutti qui, come riuniti nell’ancestrale rito del cerchio intorno al fuoco, a raccontarci vecchie storie di passate avventure, le giornate di caccia, ad ascoltarci l’un l’altro, a riconoscerci oggi Sciamano, domani discepoli, e poi ancora e sempre e solo uomini soprattutto…
E vuoto il bicchiere, e mi domando cosa ne sarebbe stato di noi se non ci avessimo creduto, se non ci credessimo, se non fossimo dei…”pazzi”?
Continuo a sorseggiare, seduto sulle sedute di cuoio verde, su cui culi grassi di pensatori teutonici hanno elaborato i pensieri che penso anche io. Pensieri che mi penetrano l’anima, la fanno pesante e pensante. Aspetto Sven che arrivi, con il suo sorriso e il suo zainetto pieno di numeri. Bevo e ricordo l’incontro di un paio d’anni orsono.
…Sven e l’incontro su quella scala che porta alla Elizabethkirche. Il suo sguardo stupito, leggero, trapassante…limpida acqua in cui ho scorto nuotare l’ombra del segreto. Ed è stato un attimo, ho deciso di seguirlo, in silenzio, sino alla stazione, dove l’ho guardato salire sul treno, e sparire nel mio rimpianto di non avergli saputo dire neanche ciao.
Era Giugno e stavo per tornare in Italia. Un estate che, sebbene baciata dal sole, mi faceva sentire freddo. Allora tu, Juan, nel mio ricordo a dirmi che non potevo lasciarmi ammazzare dal freddo del dubbio. E a Settembre sono ritornato. A Marburg, sulla scala dove lo avevo incontrato. E ho aspettato, tre mesi, ogni giorno alla stessa ora. Che passasse ancora, o che passasse per sempre il ricordo di un ricordo mancato.
E poi è apparso, sulla bici. L’ho guardato negli occhi, ancora come allora. E ancora l’ombra che nuotava sul fondo del mare. Ci siamo seguiti, io dietro, lui avanti che mi seguiva precedendomi. Sino al fiume, il Lahn, dove ha legato la bici.
Alle panchine, la panchina di Schwulen Park, e si è seduto, ed ha aspettato.
Il mio tedesco incerto, per chiedergli se parlasse inglese. La sua risata imbarazzata, e poi seduti.
La pioggia ha cominciato a cadere, leggera e fredda. Il mio braccio è scivolato dietro la sua schiena, le dita sui lunghi capelli ricci. La sua testa reclinata imbarazzata all’indietro.
“It’s gonna raining…would you like to drink a cup of tea by my place?” gli ho chiesto. Mi ha guardato stupito e mi ha detto che non sarebbe venuto a casa mia, nella casa di uno sconosciuto…poi mi ha guardato, dritto nel cuore, ed ha aggiunto:”yes, I will. And I tell you why…’cause you’ve been so shy to not speak the last summer, ‘cause you seem so insicure, ‘cause you seem like I am…”.
Un paio d’anni orsono…
Il Porto sta finendo, e Sven sta bevendo la sua tazza di cioccolato con il brandy e parlando veloce. Lo zainetto lo porterò io sino a casa. Lui continuerà a raccontarmi delle lezioni di Giapponese, della voglia di volare a Tokyo, del futuro che, sono certo, non ci vedrà insieme. Lo tengo stretto a me, come fosse l’ultimo istante di vita che mi resta. E mi attraversa il sapore del sale del mare di Espinho, il brivido della paura delle battaglie contro i mostri, contro la madre dei mostri. Il freddo degli aghi di acciaio infilati nelle vene, il sapore del sudore tuo, Juan, e l’umido delle nostre lacrime e i nostri cattivi odori mentre eravamo chiusi in casa a combattere le scimmie di anni.
Non ha conclusione la strada, ha solo tanta strada ancora davanti, e in me resta solo la certezza che non la percorrerò mai tutta, che è già tanto essere qui. In questa fredda Germania, nella città dove dormono per sempre i Fratelli Grimm, dove la mia favola si sta ancora scrivendo…
Domani sarò ancora al Rote Stern, sorseggerò altro vino, ricorderò altra vita, e mi nutrirò per vivere quella che ho adesso…


Marburg, millenovecentonovantaequalcosa


Luigi de Gregorio

martedì 13 aprile 2010

Sulla spiaggia della vita





= Moonlight =

...stanotte il richiamo dell'anima, la necessità di scrivere, l'ispirazione attesa a lungo e infine tornata...e allora visioni e musica ad accompagnare il picchiettare sulla tastiera...

La brezza che passa dalle finestre, le fessure della mia vita attraversate dalla polvere soffiata via dai ricordi.

Ricordi…un paesaggio sicuro e lucido. Come il pavè della strada di notte dopo la pioggia. E le certezze della vita raccontata. La scuola andata nel cassetto, l’università e le auto potenti, la moto, i viaggi. Tutto sicuro, certo, chiaro.

Nessun dubbio, solo la mia segreta certezza di non essere ciò che dovevo, che mi si chiedeva di essere, che, forse, avrei voluto essere. Per vivere il sogno come vita e non come fuga dalla vita.

E allora quante notti a passeggio sul lungomare, a guardare i giochi di Luna sull’acqua, a fiutare prede, o predatori che mi facessero preda. La bottiglia di whiskey e la musica jazz, i locali notturni nei quali conoscevo tutti quelli che non mi conoscevano affatto. Gli amici di sempre lasciati da qualche parte. Una scusa, “vado a prendere una boccata d’aria e ritorno”, e invece il pianto silenzioso da solo sul sedile dell’auto, lanciata a folle velocità verso qualcosa. Qualcosa che da qualche parte si nascondeva, che mi aspettava…per ammazzarmi come ero diventato.

I passi sicuri, l’andatura eretta e decisa, le movenze eleganti e studiate senza studiare. Perfetto, tutto perfetto, troppo perfetto.

E camminare nella vita sicuro, spedito, verso la crepa che mi avrebbe permesso di rompere il guscio che mi avvolgeva, per proteggermi e che invece mi soffocava.

Una birra, e un’altra, e la musica a tutto volume.

Le poesie di Morrison, di Ian Curtis e di Anne Clark…la nota veloce di un campionatore battuto da dita nervose.

Nel bagagliaio della BMW la tastiera, la chitarra e l’amplificatore. Per correre a suonare un delirio non appena trovavo un qualsiasi compagno perduto nel deserto come me.

Tutto perché la mia certezza era non più una certezza solida, ma la sicurezza di una rottura che si era creata e che non avrei saputo riparare se prima non mi fossi affacciato sulla morte di me che era dall’altra parte del muro.

Il mondo come lo conoscevo, sino a poco prima, un giorno, un anno o un secondo prima, che si sgretolava.

L’immagine del mio piede che calpesta la strada fatta di asfalto liscio e uniforme, senza soluzione di continuità. Poi il piede che poggia su un mattone, e la terra che si apre. Il mondo fatto di un solo pezzo si rivela solo insieme di tessere. Puzzle che si sgretola, si perde una tessera, e una dietro l’altra, tutte le tessere si spargono intorno. Ne perdo il controllo, non so più dove sono finite, dove sono caduto.

E penso anche che sono contento che sia accaduto, perché solo distruggendo potrò ricostruire. Le riparazioni sono lunghe, costose e inaffidabili…prima o poi devi di nuovo ristrutturare, ed io non voglio perdere tempo a mantenere il mio mondo, che non sento mio, così come è. Non ho voglia di fingere che mi stia bene.

So che dietro questo guscio che si sta disfacendo c’è qualcuno che me lo aveva messo intorno, che mi stava controllando e adesso comincerà a temermi, perché gli sfuggirò tra le dita, come sabbia asciutta dopo secoli al sole cocente di amore asfissiante. Ho il bisogno di sentir freddo e la paura di non sopportarlo. Ma ho anche un coraggio che nessuno sospetta, il coraggio di andare nel buio e farmi strada da solo, il coraggio di farlo da solo, la certezza che chiederò alla luna, mentre rischiara il mare che guardo, di mostrarmi un profilo diverso, sul quale disegnare il mio nuovo aspetto.

Non guardo più alcuno. Il fumo azzurrino del Caffè della Luna, la musica e i volti noti di ignoti compagni di sempre…sono solo inutile contorno, accessori superflui. Distrazioni da quello che sono: semplicemente un signor nessuno!

Luigi de Gregorio


mercoledì 7 aprile 2010

Una storia tossica

Con un po di ironia, una storia vera. Torvajanica, Agosto 1987
(immoralmente scritta nell'anno 1999)

Già. Erano passati 5 anni da quando l'Italia aveva vinto i mondiali, e 3 da quando ricominciai a praticare il sesso solitario.......Non avevo internet, non avevo Mellino, non. Avevo allacciato amicizie a Torvajanica, con tutti e due i gruppi, quello dei cosidetti buoni, ovvero coloro che la sera organizzavano chitarrate in spiaggia, che andavano all'università, che affrontavano problemi sociali, che..., e con il gruppo dei cattivi, ovvero coloro che frequentavano la sala giochi del bar sul lungomare, che si facevano le canne, che parlavano di calcio, che bevevano parecchia birra, che.Era già un'anno che conoscevo Sandra e Cristiana, con i figli piccoli e senza donna al seguito ti rimorchiano le donne, tu devi fare davvero poco....Il gruppo dei buoni non vedeva di buon occhio Sandra e Cristiana, dicevano che erano due lesbiche, che.Può darsi. L'importante è il risultato, io avevo praticamente vinto 2 a 1 fuori casa, perché Paola, della squadra dei buoni diventò la mia fidanzata, e Sandra, coadiuvata da Cristiana, diventò la mia puttanella del gruppo dei cattivi, la puttanella.Il 2 Agosto servizio completo in spiaggia a mezzanotte, dietro un cucuzzolo naturale di sabbia mista ad erba, il 3 in albergo, da me, buca clamorosa, un misto di stanchezza mia e di non facile lubrificazione naturale lei, niente, non entra, arrivederci a domani, oggi non è aria, non entra, non.Fernando. Gruppo dei cattivi, lui un po' pessimo in effetti lo era, ma non con me. Ero il suo preferito per le ore che passavamo a giocare a racchettoni in spiaggia, lui era il mio preferito per giocare a racchettoni in spiaggia, era!.Si faceva una canna ogni 15 minuti, una Peroni da 3/4 ogni due ore, dicevano in giro che addirittura sniffava..Fernando e Sandra si conoscevano già da Roma, perché vivevano nello stesso stabile del quartiere Monteverde Nuovo, nello stesso.A metà Agosto la splendida idea di Sandra, la mia puttanella ufficiosa, eppoi Paola era a Londra....- Perche' non andiamo a Roma, a casa mia? L'invito lo estese a me, a Cristiana, a Fernando, lo estese.Partiamo, con la Uno di Sandra, pazza scatenata in macchina, di quelle che non capisci se è brava e spericolata oppure solo fumata... Fernando era già strano in partenza, l'avevo visto al bar bere anche del whisky, l'avevo.Il viaggio durò poco, in venti minuti si è a Roma, in trenta già a casa di Sandra, casa libera, casa vuota, nessuna rottura di scatole, i genitori erano nella casa al mare, erano.- A Ferna', e stà bbono n'attimo c...., aribbevi er whisky pure qui'? Ma che tte voi fa davvero male, stasera? C.... tuoi.....Vedo la chitarra di un fratello di Sandra, la puttanella, e inizio a strimpellare....Il tempo passa, le canne si sprecano, Fernando beve e fuma...Sandra alza il telefono e chiama qualcuno. Le chiedo chi avesse chiamato, - ragazzi fra un po' avremo una sorpresa.Ok, faccio pippa, mi piacciono le sorprese, continuo a strimpellare fumato, non so che ore siano, non so un c...., sto bene però, stranamente stò.Suonano alla porta, Sandra schizza ad aprire euforica.Erano due persone, un uomo, una donna. L'uomo non lo ricordo più oggi, a parte una catena d'oro che avrà fatto 3 etti... Lei era una mulatta stupenda, vestita di azzurrino, mezza trasparente....un'attimo che tolgo tre peli dalla lingua e........insomma una figa da paura!! Parlano un po' con Sandra, le danno qualcosa in mano, a noi ci salutano educatamente, due persone per bene, due. Vanno via, arrivederci.Sandra mi racconta poco di loro, mi dice che sono ricchi, che hanno lo yacht parcheggiato a Fiumicino... Suono e mi dico stik.....- E che c.... è, cocaina? dico.Tutti contenti loro, tutti esperti, dicevano che era quella mezza rosa, la migliore che c'è in giro. - Meicojoni urlo.Sapevo che non ci si poteva andare a rota per un tiro, sapevo e tiro su. Il tempo passa, io sono uguale a prima, non mi cambia nulla, e allora a che serve tirare su quella roba?
E' servito. A me è servito.....Fernando era sparito da troppo tempo. Prima in bagno, poi di nuovo nel salotto dove c'è il mobile bar....Sandra si alza e va a cercarlo. E' stato un'attimo. Un'urlo di cristo, Sandra torna in camera mentre urla e piange....Corro di là, lo trovo in piedi, appoggiato su una parete, con gli occhi rigirati. - C...., questo è morto!Sandra, la puttanella, sapeva come fare. Ricordo che gli tirò subito fuori la lingua, lo prese a pizze in faccia... Non era morto, ma faticava anche a respirare.Era notte fonda, lo trasciniamo sul terrazzo, aria fresca, aria fresca, c...!!- Che si fa? Io se chiamo l'ambulanza mi rovino dice Sandra.Chiamo l'ambulanza, lo portano al San Camillo, seguo in macchina, Fernando lo ricoverano d'urgenza, io e gli altri al posto di polizia dell'ospedale, a spiegare, a spiegare....- Parlo io, voi zitti, io sto tranquillo, sto bene, parlo io.Fernando si era bucato di nascosto in bagno, Fernando era gia brillo a Torvajanica, tra birre e whisky, Fernando aveva continuato a bere a Roma, Fernando aveva tirato e si era bucato....Non lo sapevamo, noi non lo sapevamo, non.- Eravamo in casa della mia amica (la puttanella, ndr) a suonare la chitarra. Fernando ci venne a trovare perché aveva sentito dei rumori nell'appartamento e credeva fossero i ladri. Gli abbiamo aperto la porta, e quando ci vide ci disse se poteva restare un po' con noi. Poi si è sentito male, eccoci qua.Me la ero inventata al volo, ha funzionato, noi siamo bravi ragazzi, noi. Fernando è salvo, gli hanno fatto la gastrica d'urgenza, io scoppio a piangere, sono stato bravo e Fernando è salvo, è.Il giorno dopo ci ritroviamo a Torvajanica. Fernando vuole giocare a racchettoni, Fernando vuole andare al bar, Fernando al bar ha bevuto acqua minerale, durante la mia presenza, durante.Oggi non so che fine abbiano fatto Fernando, Sandra e Cristiana, ma so con certezza che mi aveva fatto effetto, e che per una volta è servito a fin di bene, anche perché riflettendoci non avrei certo mantenuto quella tranquillità e fermezza, lì alla Polizia, lì.

giovedì 1 aprile 2010

Simona, che non c'è più e invece c'è ancora...







“Allevamento Conigli. Campo Scuola”…
La grafia è elegante, ordinata, ornata. Semplice, come te in fondo. C’è quella piccola aiuola, realizzata con i tronchetti di Pino che tagliavamo, come tu li volevi, delle dimensioni che pensavi fossero giuste, alti quanto necessario per contenere il terreno, nel quale hai piantato dei Ciclamini. Aprile 2005. Il Parco è pieno di Ciclamini in Primavera. Sai il nome altro che hanno qual è ? Panporcini. E sai perché ? Perché ne sono ghiotti i suini.
Tu, Ciclamino, divorato da suini…
Sono entrato nel Parco, e ti ho vista sorridere, con tutte quelle mollettine colorate, a mantenere i cento ciuffetti di capelli biondi. Gli occhi che si sforzavano di sorridere, il pozzo infinito della tua malinconia. Non tristezza, malinconia. E’ diversa la malinconia dalla tristezza. Oggi so cosa vuol dire. Non sono triste per la tua assenza. Sono malinconico. Sono pieno di quell’amore che mi hai dato e che, probabilmente, non ho saputo cogliere a fondo. Mi manca, ma sono fortunato, perché almeno io l’ho avuto. Mi incupisco, ma poi penso che noi due ci siamo capiti, ci siamo parlati, ci siamo raccontati il nostro dolore. E allora sorrido. Non ho rimpianti, ho vissuto il nostro stare insieme come potevo…come sapevo. Allora. E tu ? L’hai sentito il mio amore ? Io so che mi sei stata vicina, con discrezione. Che mi hai sollevato dagli imbarazzi, che mi hai dato le tue lacrime. Che hai raccolto le mie. Ci siamo immersi nei nostri dolori, abbiamo nuotato uno nell’altra. Coraggiosi o incoscienti, non importa. Ci siamo bagnati di noi.
Lo abbiamo fatto da soli, quando gli altri erano lontani. Erano altri. Vivevano altro. Mi vien da pensare che dovrei piangere, ma non mi escono lacrime. Addirittura mi viene da ridere ripensando a quando, con delicatezza, antitetica con la tua corpulenza, mi toglievi un concorrente dalle spalle, per agevolarmi nella mia relazione con quel ragazzo che piaceva a entrambi.
A quei caffè, al Bar dove entravamo e sentivamo mormorare qualcuno, che pensava andassimo a ubriacarci. E invece andavamo a scherzare con il barista, che era davvero bello.
A quando chiamavi “Antonietta” il nostro amico e lui si faceva rosso come un peperone…Sai, quando lo vedo lo chiamo ancora così. Adesso sorride anche lui.
Abbiamo avuto poco tempo per stare insieme, troppo poco. Ma abbiamo saputo giocare, liberi di essere ciò che eravamo…Ti ricordi quando hai rubato le monete dalla ciotola della signora del Parco? Ora ho capito. Ti riconoscevano solo se continuavi a essere una ladra, una tossica, una perdente perduta per sempre…E tu, dolce come neanche il miele che producevamo, li accontentavi. Forse sperando che ti riconoscessero… il diritto di essere quella bimba, bionda e bella che eri.
Scusa se ho lottato meno di quanto avrei forse potuto. Certo ricordi quanto ho pregato, uno dei suini, di lasciarti con noi. L’ho chiesto come favore personale. Mi hanno accontentato, e poi hanno fatto di tutto per farmi sentire in errore.
Eri persa in un bosco, e urlavi, e camminavi cercando una strada. E tutti, forse io compreso, non abbiamo saputo fare altro che urlare a nostra volta, chiedendoti di seguire le nostre voci. Che erano tante, troppe. E provenienti da direzioni diverse. Avremmo dovuto dirti di fermarti dove eri, avremmo dovuto venire noi da te. Non ne siamo stati capaci. Io non ne ho avuto il coraggio. Scusa.
E scusami anche per non aver avuto il coraggio di allontanarmi dal parco. Sai ci penso spesso. A te, a Sasà, ad Antonio, a Biagio…Chissà, forse se io fossi andato via non vi avrebbero abbandonato. Pur di tenermi avrebbero acconsentito alle mie richieste. Avrei dovuto ricattarli, ma pensavo che amassero voi come vi amavo io. Invece eravate solo un mezzo per far vedere che facevano qualcosa, per voi, per te...
Oggi lo farei, oggi li ricatterei.
Oggi. Ma è tardi, troppo tardi…
Sono seduto in mezzo a venti persone, al centro di uno di quei gruppi che ben conosci. Ti sto parlando e sto facendo il duro. Forse perché in fondo sono incazzato, con chi era deputato a fare qualcosa, e invece se ne è fottuto. Quelli per cui tu eri solo la “nr. 2 del Ser.T di Giugliano”. No, tu eri una persona. Che voleva essere solo una persona, solo se stessa.
Una donna bambina per sempre. Tra i Lecci e i Pini, nella aiuola di Ciclamini, sulla riva del lago. Nel mio cuore. Sei viva, per sempre. Hai avuto la forza di renderti immortale. Per me.
Il gruppo si sta avvolgendo o svolgendo, non lo so bene. Continuo a sentire la tua voce roca. Ma la sento solo io, vorrei che la sentissero tutti.
Dentro di me lo spero, con tutte le forze.
Passa un uccello, non so quale sia, ma vola basso quando ci passa sopra, e canta. Brevi squillanti note. Sei venuta a salutarmi. Vola libera, finalmente. Ti ho voluto un gran bene. Te ne vorrò sempre. Grazie per quanto mi hai dato, spero di averti dato anche io qualcosa.
Ciao Simona.

Luigi de Gregorio

...neve fresca...

...le strade di Amsterdam, la neve fresca e le mie orme...camminavo all'indietro per esser certo di seguirmi. Kalverstraat sempre piena di luce, e allora per le stradine lungo i canali, fino all'Herrengracht, nella casa che mi prestava Clara. Ormai lei viveva più che altro a Parigi, in una soffitta che affacciava su Saint Germaine en Laye, e dipingeva la sua nostalgia di casa. Una cosa senza senso secondo me, ma bellissima e ricca per come lei la viveva, drammaticamente...
Arrivato in casa, via gli stivali e scalzo sulla moquette color cobalto, l'ultima sigaretta e un sorso di Cognac. Via pantaloni e sotto il piumone, ad aspettare che venisse giorno, per sfuggire ai sogni. Che sono assassini affascinanti, che ti ammazzano disegnandoti l'impossibile.
Accanto alle scale del palazzetto signorile dove abitavo, il Museo degli ologrammi...un flash di primo mattino. Entravo e guardavo acqua inconsistente scorrere, nella luce rossastra...e poi via, lungo il canale, fino al Singel. Una colazione rapida, con succo d'arancia, pain chocolate, caffè nero...
La prima sosta al Frog, il negozio dove scovavo i vinili più improbabili...appena entrato, quela mattina, una musica straziante, dolce, un po' tragica...la colonna sonora perfetta per quella giornata.
Guardai Dig, il tizio con la cresta colorata che conoscevo da anni, che avevano messo dietro il banco del Frog appena lo avevano aperto...un punto di domanda nei miei occhi. Il suo sorriso fatto di fumo, la bocca semiaperta, "dead can dance" mi disse. Risposi di getto "yes, maybe...", sorrise ancora, o forse non aveva mai smesso dall'ultimo trip che aveva mangiato. Ero io che riuscivo a vedere se sorrideva davvero o meno, oltre la smorfia del volto..."no, Dead can Dance is the name of this band..." e mi porse la copertina. La guardai e capii che lì dentro c'era la colonna sonora dei miei viaggi. Quella che credevo di aver composto io e invece anche altri.
Avevano viaggiato gli stessi incubi?

sabato 20 marzo 2010


Elegia di Marzo

un video di Maria Korporal
con musica di Angelo Gilardino
interpretata da Luigi Giffi




technica: Video e animazione digitale
durata:
5'00"
anno:
2009




Il video è una libera interpretazione del pezzo musicale "Elegia di Marzo", composto da Angelo Gilardino ed eseguito dal chitarrista Luigi Giffi. La composizione è un omaggio al poeta spagnolo Juan Ramòn Jiménez e alla sua lirica intitolata "Oberon a Marzo".

Oberon a Marzo

Tu accompagni il mio pianto, marzo triste,
con la tua acqua.
– Giardino, le tue rose nuove
già marciscono in fondo alla mia anima! –

Indifferenza e freddo.
Le immagini caste
che colorai, sul fondo
della mia illusione romantica,
mescolano il loro colore, pallidi dipinti,
nella lagrima calda e silenziosa.

Oh, tutto quello che doveva
essere mio!
Passò tutto.
Che falsa
verità quella d'un istante, vita!
Mi sembra
che fosti, amore, una statua
di neve, che la primavera,
come il suo cielo grigio disfà in lagrime.

Juan Ramon Jimenez (1881-1958) Premio Nobel

Traduzione trovata su www.qforum.it/poesia/763-poeti-spagnoli.html#post10383

video © Maria Korporal – http://www.mariakorporal.com/


Weiss Nacht

...non c'è più il tempo...Kairòs si è impadronito della mia anima e la sospinge, verso altrove che non è più qui. O forse è un "qui" altro. Il mio personale tempo, in a-sincronia con questo mondo immondo. Non vi appartengo, a esso non a voi che leggete, scrivete, ridete, bevete...bevete alla mia salute che forse c'è forse no. Non lo so, anche perchè non so cosa dovrei sapere. E quello che credo di possedere mi appare sempre più come qualcosa di mio e non condivisibile, perchè forse solo un niente che vesto da qualcosa. Per darmi un tono...una nota. Come quelle che mi affibbiavano a scuola, le note, tante note in condotta. Io bambino vecchietto bravissimo che sa tutto e sa anche come rompere le scatole. Perchè mai stato al gioco, mentre giocava. Mai stato al gioco degli adulti...e come faccio adesso a stare al mio gioco? Che dico? Avessi bevuto mi capirei mentre non mi capisco, ma sono sobrio, e allora ancora più folle...sono scappato al sonno del sogno che rivela la vera natura, e mi ritrovo sveglio mentre la follia non è nel suo spazio deputato. Dal mondo normale, che vuole esser folle solo ubriaco, o mentre sogna e disegna la realtà che vorrebbe di giorno, quando inscena una normalità, anormale per se stessi sebbene normata dalle regole, che pesano come tegole...che realizzano un tetto sotto cui nascondere la vera identità. Perchè non ci credo che tutti siano quello che appaiono, neanche i più santi, i più delicati, i più dedicati...sono convinto che tutti si porgono nella maniera in cui la mente loro ordina di fare, per sembrare decenti, per entrare in un gruppo, per appartenere a qualcuno o qualcosa. E poi di notte quei sogni, i pianti e le urla, il sesso sfrenato e le scene più oscene. Che neanche allo specchio, perchè a guardarsi non ci si riconoscerebbe. L'anima si, ma la mente non può...e gli occhi, ad essa asserviti, rifiutano di registrare l'immagine dentro la superfice riflettente. Che se la guardi il cervello si sente derubato della sua capacità, del suo dovere di riflessione, e si flette, si piega sotto la ragione del riflesso allo specchio, che da esso prescinde. Non ha senso tutto ciò? Certo che no! Non vuole averne. Voglio sfuggire alle regole della logica, seguire il fiume impetuoso che muove le dita sulla tastiera, correre dietro le parole così come posso...guardandole da dietro perchè sono più avanti di me. Mentre le scrivo, si voltano e mi fanno sberleffi. Sono già andate e io qui ancora a tentare di dar loro un senso. E chi se ne frega di dare un senso allora. Vi frego parole, vi scrivo come riesco. E peggio per voi se non dico quel che avreste voluto dicessi. Adesso sono io che comando il gioco. Niente Leopardi e nemmeno Manzoni, lungi da me la poesioa di Aleixandre, il dolce stil novo...forse un po' di Bukowsky, un pizzico di Rimbaud, magari quel che mi resta di Burroughs. Stanotte è pieno giorno e allora si gioca. Sull'altalena dei tempi aritmici e atipici e un poco antipatici. Che poi è un paradosso, perchè più sei antipatico più sei patico con te stesso. E se sei patico con te, sei empatico con quell'IO che sei da qualche parte. E nello spazio in mezzo, tra te(me) che scrivi e "Io" di cui vorresti dire, nello Aidà di Kimura Bin, proprio in questa terra di mezzo tra me e il mio pensiero di me, forse qui in mezzo ci sono io. E a voi cosa importa. Io maledetto, benedetto, raccontato da chi mi ha incontrato, secondo lui, mentre di me ha visto quello che la sua prospettiva gli ha permesso di vedere. E io di lui che ho visto da tre luoghi diversi. L'ho visto da me, l'ho visto da "Io" e l'ho intravisto da qui in mezzo dove sono adesso.
Dove mi sta portando questo rafting sulle rapide del pensiero?
Arriverò in una laguna?...se così sarà mi fermerò, guarderò le parole ferme e ordinate, mi specchierò sulla superfice dell'acqua...e sarà calma, sarà immagine che la mente riconoscerà...sarà di nuovo tutto ciò che a scuola mi hanno insegnato...sarà ordine e precisione. Attenzione a congiuntivi e punti e virgole...sarà dirmi: ma come scrivo bene, come son bravo a raccontare con ordine quel che il mio cuore mi dice...
Torneranno Guinizzelli e Cavalcanti, la memoria del Cecco Angiolieri, il Pascoli e Nuno Judice...e io scomparirò dentro di loro, fingendo che mi abbian dato modo di raccontarmi a dovere...
Me ne andò a dormire, a sognare le strade ventose di Tangeri, o forse le gole con i torrenti in Extremadura, al confine con il Portogallo dove milioni di alberi di ciliege tra poco daranno "cerezas", della spiaggia di Laredo in Cantabria e i folletti di Lierganes, gli Eucalipti della Galizia...il mare calmo e trasparente di Kho Samui, gli odori di Bangkok di notte...domattina cappuccino, spremuta d'arance e pan brioche con marmellata di fragola, passeggiata con il mio cagnolino...e tutto questo, questo tsunami di me, questo "io" che sta tracimando, sarebbe solo ricordo sfumato se non lo avessi riversato su questo...questo cosa? Che non è neanche più una pagina, come era una volta...se non lo avessi fissato qui, adesso!

Luigi de Gregorio (forse)

venerdì 19 marzo 2010

Malika

Il cambiamento, caro mio, è la chiave del desiderio
Tahar Ben Jelloun, Partire




Le creature di sabbia sono sempre cittadine di una ferita e soggette ai forti venti del deserto e del pregiudizio.

Sono ferma guardando il mare all'orizzonte. Lontano lontano la costa di Spagna si ostina a restarmi celata allo sguardo. Troppo lontana la costa di Spagna disegna l'arco a sesto acuto delle tue sopracciglia, muto punto interrogativo sulle mie parole. L'immobilità mi procura uno strano formicolio in tutto il corpo. L'immobilità è delle pietre. Non può appartenerci se non per un istante. Scruto il mare all'orizzonte mentre granello dopo granello la sabbia scivola nella clessidra del desiderio negato. Il formicolio aumenta. L'immobilità è della pietra. Scruto all'orizzonte il mare mentre divento formicolio. Ferma. Poi divento pietra. Arriva la sera ed io divento sonno. Dormo. Mi abbandono.Il mare vive dentro al mio sonno e la luna mi fa da sfondo. Sento cambiarmi le fattezze del volto e poi il corpo piano rinasce ignaro del suo stesso genere. Tutto e niente. Sono.

Ascolta, viandante. Passa senza dire nulla. Guarda col tuo sguardo la ferita, l'orlo del sangue rinsecchito segna l'impronta dell'onda sulla battigia in un tramonto pallido. Accarezza quell'orlo con sguardo curioso. Poi vai. Non è da me il tuo posto. Il tuo posto non è qui.

La tua voce muta al mondo me la porto dentro da secoli, suadente e piena di illusorie ed improbabili vicinanze. Certe solitudini sono senza scampo, senza via di fuga.

Oggi andrò all'hammam e laverò questa ferita che il mondo non possa più vederla e neanche immaginarla. Non sopporto gli sguardi pietosi. Mi sono intollerabili alla vista.

Qualcuno dice che sette sono le porte da attraversare. Io sono appena alla terza. Devo prepararmi per la successiva.
Lasciami solo un po' d'acqua per quando avrò tanta sete, viandante.

Sulla via dell’hammam, passo dal souk e mi ricordo di quando mia madre sgozzava le galline. Un solo colpo secco e, pendulo, si rovesciava il capo dell’animale pieno di morte dove un attimo prima c’era vita. Secca e improvvisa era la torsione del collo della gallina, secca era mia madre e brutale quando nel souk mi torceva il polso appena i colori di una tela mi avvincevano lo sguardo. Bastava questo gesto a togliere voce a ogni mio desiderio. Madre, madre che mi hai negata al desiderio! Lo scriba a cui chiedesti di scriverti una lettera d’amore non ebbe esitazione a dirti: No. L’amore non abitava il tuo cuore e lo scriba non aveva parole per te.

Il souk vive di frenesia, vive di sogni strappati a turisti imprevidenti. Comprerebbero anche lo sterco al prezzo di un diamante. Deve essere il sole. Questo caldo che ti bracca l'anima. Noi ci siamo avvezzi e sappiamo che è folle sfidarlo. Bisogna solo fotterlo giocando d'astuzia e di lentezza. Siamo più scaltri noi. E' una scaltrezza che viene da lontano. Il segreto sta nella lentezza. Tutto qui.

Profumi di spezie e di incensi riempiono l'aria in un modo che è quasi nauseante. Bisogna respirare in modo saggio per non esserne storditi.Oggi ho gli occhi stanchi, così tanto stanchi che disegnano cerchi concentrici intorno ad una sola immagine sfuocata, che assomiglia alla tua nuca. Ma non la tua nuca di oggi. No, non quella. La tua nuca di venti anni fa, quando davanti ai dotti dell'università discutesti il tuo lavoro di agronomia e davanti a una domanda inaspettata il tuo collo prese a torcersi così nervosamente che mi sarei messa a urlare contro quegli uomini che ti mettevano in difficoltà, ad arte. Sembrava una cosa studiata. Forse una piccola vendetta. Mediocri.
Gli occhi oggi sono stanchi di una stanchezza che viene da lontano e granelli di sabbia si frappongono tra la tua nuca di ieri e quella di oggi. Devo cercare lo scriba. So che qualcosa ne scrisse. Dei versi, credo. Versi sul tuo collo nervoso. Te li lessi una volta venti anni fa e poi di nuovo appena due anni fa. Ne ridemmo. Devo cercare lo scriba. Lo cerco. Non c'è. C'è solo una sedia. Vuota.

Cerco lo scriba. Chiedo ai vicini. Non ne sanno niente. Saranno tre anni che non si vede in giro. Deve essere partito, dicono. Lo diceva sempre che prima o poi avrebbe preso la via del deserto. Deve averlo fatto.
La sedia vuota, dove prima sedeva lo scriba. Dietro la sedia il muro scalcina coprendo di bianco la strada. E' abbandonata la casa. La sedia è sola. Giro intorno alla casa in cerca di tracce. Nel cortiletto un gatto bivacca all'ombra di un pozzo. Ma c'è qualcosa sul pozzo che sventola al vento. Un piccolo quaderno mezzo spaginato con i fogli ingialliti dal sole.
Apro il quaderno nel mezzo. Leggo:

Sulla sua nuca c'erano scritte tante cose e in modo disordinato. Prima una fine e poi un inizio e poi di nuovo un inizio e una fine. Una mela per tre nel 1989 e la neve a gennaio negli occhi di Zaira nell'anno 2005. Zaira vestita da sposa, la sposa tunisina all'occidente, la vertigine del vuoto negli occhi di Zaira in una fredda mattina di febbraio. E poi l'odore di formaldeide di un ospedale nell'anno 2006 e un albero pieno di nodi nell'anno 1989. Un inizio e una fine. Una fine e un inizio. Nel mezzo: una vita.

Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Mi siedo.

= Legami slegati =

A Samuele

Apro finestre sui miei cortili abbandonati, invito a guardare, e a vedere la vita che mi abita, perduta nei grovigli delle male piante che mi affollano. Ti chiedo di non chiedermi "perché" , solo di guardare "come" esisto, e di raccontarmelo. Mi avvicino e osservo come stai nel tuo mondo, in che maniera. Come vivi il tuo tempo, come guardi le immagini che si presentano a te...come, come, come. I perché servono a chi li chiede, il "come" mi fa sentire che sei qui e non lassù, che mi guardi e mi "studi". Devo abbracciarmi, per capire come sto nel mio corpo, come sento il mio esistere, come vivo il mio andarmene…come fare a trattenermi e farmi uno, per offrirmi alla tua macina, che mi smonterà e rimodellerà, nuovo ancora una volta.
Scorrono barche di carta nel fiume di niente che ho attraversato. Legami che sono ognuno per se, con se, lontano da se.


"I was born with the wrong sign
In the wrong house
with the wrong ascendancy
I took the wrong road
that lead to
the wrong tendencies
I was in the wrong place
at the wrong time
by the wrong reason and the wrong rhyme
On the wrong day of the wrong week
use the wrong method with the wrong technique..." ( Wrong – Depeche Mode )


Dalla finestra socchiusa, raggi di luce e l’invito a un gesto semplice e spaventoso. Guardare fuori nel mondo, smettere di chiedere che altri guardino il mio…scompare la presunzione di essere il solo a sapere dell’oscurità. Improvvisamente l’idea che altri mondi oscuri si aggirano intorno, che altre finestre sono chiuse su vite nascoste. E la tua espressione non è più quella che avrei io se fossi te, è semplicemente, definitivamente, solo la tua. Stare insieme non è più io che sto con te, ma io e te che stiamo con noi, come stiamo con noi adesso. Il mondo si ri-colora di tutta la storia che saremo capaci di scrivere insieme e non delle tinte opache della mia storia mentre ti sono accanto, senza essere con te.
C’era la sabbia intorno allo scoglio quando mi ci sono seduto, la luna alta nel cielo, la bottiglia semivuota e il caldo appiccicoso. Le luci di Porto in lontananza, il tuo capo sulle mie gambe, la mia mente lontana e la mia voce a parlare le parole “dovute”. Poi la nebbia del sonno. Un’ora o forse di più, quindi gli occhi sbarrati, all’improvviso, e la mia ombra lunga disegnata dal tiepido sole dell’alba, sorto di nascosto alle mie spalle, sulla superficie dell’oceano. Non c’era più la sabbia, non c’era più la luna, non c’ero più io come mi ero addormentato. Ma tu eri ancora li, con la testa sulle mie gambe, le mani giunte in preghiera in mezzo alle cosce. Ti ho carezzato il capo e mi sono sentito un martire. Di me stesso, dell’amore tiranno. Il mare era tornato appena la Luna si era nascosta sotto la luce. E noi due bloccati sullo scoglio. La mia vita da sempre, da solo nel mare. Questa vita che mi separa da tutto, mentre mi offre la strada per raggiungere tutti…con i riflessi di me sul mare increspato. Si muovono come veli sottili mossi dal vento, che mi sfiorano la pelle, come fai tu quando io dormo e non vuoi svegliarmi...Orfeo rinnova il suo mito, cantandomi nenie dolcissime di amore incastrato...e la musica che dipinge e non suona, se sai guardare ad occhi chiusi...Il vento soffia leggero e segue le dune sul deserto di pelle che è il mio corpo, scavalca le dune minuscole che il brivido di esserti accanto ha generato. Bruci dentro, ti amo dentro, mi ami dentro, ti voglio addosso e ho solo freddo sulla pelle. Riesco solo a scrivere, a riferire quello che la mia anima mi racconta…lei non ha voce e mi usa. Io sono solo il suo strumento. Succede che improvvisamente le parole nascono, da sole. Perché ogni momento che vivo lo guardo, e la vita mi entra dentro. Dolce penetrazione o stupro violento. E comunque mi feconda…le parole escono a fiotti, incontrollate e mi chiedono solo di metterle li, in ordine. Un ordine che non è mai lo stesso che avevano quando non erano ancora parlate. Le voragini che mi sono scavato dentro, mentre correvo verso adesso, mi hanno fatto diventare una valle profonda in cui risuona l’eco del mondo che attraverso… che mi attraversa quando sono per strada, quando faccio l’amore, quando guardo un bambino che ride. Suoni della vita che mi entrano dentro e poi rimbalzano fuori, un po’ cambiati dalle curve e dagli angoli della mia cassa armonica. E’ la vita che si riprende il suo regno, che canta e balla dentro, e mi invita a non temere il buio quando è notte, a smettere il drappo nero sul capo di giorno. E’ amore che sento che muove… adesso che tu sgrani gli occhi al risveglio, mi guardi e sorridi. Disgiungi le mani, mi abbracci e cancelli in un attimo tutto il passato e tutte le storie oscure, per regalarmi un adesso insieme. Questo adesso che non è più lo specchio d’acqua in cui annegare, amandomi da solo, ma te che mi ami…

mercoledì 17 marzo 2010

= Step Inside =

...questo breve racconto risale a diversi anni orsono ed è stato pubblicato sulla Rivista "Passages - Arti culture riflessioni" . Con infinita infelicità ho scoperto che il nome dato al mio personaggio è uguale a quello usato da Moccia nei suoi (perdonate la spocchia) romanzucoli...Poco mi ha confortato il fatto di averlo scritto ben prima che lui scrivesse il suo.



= Step Inside =

Step è un bambino felice. Sorride quando ne ha voglia, e, spesso, anche quando non ne avrebbe lo fa lo stesso, perché si rallegra nel vedere l’espressione contenta di chi gli è di fronte. Sorride, quasi sempre. E quando dorme ha il volto disteso, sereno, come tutti i bambini. Sogna, e tiene un diario dei sogni, glielo ha insegnato il papà, “perché è un bel modo di conservare i colori dei sogni, e i sapori dei dolci che ti inventi da solo e che hanno il sapore che più ti piace, e l’odore del pane appena sfornato dal forno nella casa di montagna. E il solletico della schiuma delle onde del mare d’estate, il caldo della sabbia sotto i piedi. Ha il potere di rendere infinitamente lunghe le carezze che desideri, per sempre lì, a portata di mano, anche quando mamma e papà non ci sono. E poi un diario dei sogni è importante anche quando i sogni sono brutti sogni. Così li leggi, e ti sembrano quello che sono, solo brutti sogni, niente a che vedere con la realtà, che è fatta dei giochi con il tuo fratellino, e con le graffe calde che Rosa, la tata, ti porta ogni mattino e ti permette di mangiare nel lettino, sporcandoti tutto di zucchero “. Già , la realtà, che però a Step non sembra poi tanto diversa dai suoi sogni. Ha il suo amato cane con cui giocare, e andare a passeggio sentendosi fiero di averlo, e protetto da lui, ha una bella bici, la più bella che si possa desiderare, e la mamma poi! La mamma è speciale, perché non solo è bellissima, la mamma più bella di tutte le mamme dei suoi amici, ma è anche brava a cucinargli le cose buone, e cucirgli i vestiti che ha solo lui e nessun altro, perché la mamma li inventa. E disegnano insieme, guardano i documentari degli animali e i cartoni di Braccio di Ferro, e ridono da matti. Almeno sino all’ora di fare i compiti, quando arriva la dolce vecchia Zia Autilia, che poi è una zia di papà che è stata insegnante per tutta la vita, e che ora è la sua insegnante personale, e lo aiuta a fare “le lezioni”, come dice lei, a lui e a Fabrizio. Zia Autilia ha sempre un buon odore di borotalco, quello con la scatola verde scuro, e gli regala, ogni settimana una moneta d’argento da Cinquecento Lire, a patto che la metta nel salvadanaio. E poi è una strana insegnante Zia Autilia…quando Step gli fa una domanda lei non risponde mai. Dice sempre “ guardiamo sul vocabolario, oppure “cerchiamo nell’enciclopedia “. Step si domanda se forse questa sua strana insegnante personale non sia una che non sa nulla in realtà. Forse è per questo che non insegna più nelle scuole, perché si sono accorti che le cose non le conosce, e delega tutto ai libri scritti da altri. Chi lo sa. E poi perché deve avere un doposcuola? Lui a scuola va bene, anzi benissimo, e lo fanno sempre capoclasse, quasi ogni giorno…tranne qualche volta che, secondo lui, fanno capoclasse qualcun altro per non scontentare nessuno. E gli danno anche la coccarda verde, perché non litiga mai, e gioca, sempre con quel suo sorriso stampato sul viso, e gli occhi spalancati, nei quali c’è perennemente disegnato un punto di domanda , o uno esclamativo. Step è sempre così. Un bambino felice, davvero…Tranne che nelle foto. Non c’è una sola foto di Step che lo ritragga mentre sorride. Nelle foto ha sempre uno sguardo che è …è altrove. Dove è Step in quella frazione di secondo che gli fermano la corsa in uno scatto? Non si capisce, non lo capisce lui, e non lo capiscono gli altri, la mamma, il papà, e nemmeno i suoi cinque nonni. Già, perché anche questa è una cosa che ha solo lui fra i suoi amici. Step ha due nonni e tre nonne, perché il papà di papà si è sposato di nuovo con una signora molto gentile e anche tanto grassa. Così grassa che una volta al cinema si è seduta, e si è rotta la sedia, e lui e Fabrizio sono scoppiati a ridere, e il nonno si è molto arrabbiato. Questo fatto dei cinque nonni ha un sacco di vantaggi…Fanno a gara per tenerlo con loro. I nonni di mamma hanno anche altri nipoti, i cugini di Step, che sono tanti, perché mamma ha cinque fra fratelli e sorelle, e tutti hanno quattro figli, tranne una, zia Margherita, che è decisamente bruttina e non ha neanche un fidanzato…naturalmente. Allora i nonni di mamma lo vanno a prendere ogni tanto, e lui con loro si diverte molto, ma sono un pochino severi, e lo rimproverano quando fa le marachelle, e con loro il sorriso funziona un po’ meno. Un giorno si è messo ad origliare, mentre parlavano tra loro, e li ha sentiti dire che lui è un bambino speciale, un pochino strano…”sembra quasi un vecchietto.” Chissà perché hanno detto così. Lui è corso in bagno, si è guardato allo specchio, e ha visto che non ha la barba che ha papà, non ha neanche quelle righe sulla fronte come il nonno, e ha gli occhi scuri e limpidi, non sono come sporchi di latte e “azzurro vecchio”, come quelli del signore che ogni mattina viene a casa a portare le uova fresche e le mozzarelle che gli piacciono tanto. A volte gli regala anche dei biscotti. Si saranno sbagliati, o forse ha capito lui male. Non ha nulla del vecchietto.

I nonni di papà invece, che sono tre, fanno a gara per tenerseli, lui e Fabrizio, quanto più possono. Da un lato c’è il nonno con nonna due, che ogni Sabato viene a prenderli, e li porta allo zoo, al cinema, a fare le gite. Addirittura una volta, che poi la mamma si è molto arrabbiata, sono andati a Ischia, dove il nonno ha una casa, con l’elicottero. Sono andati al porto, e c’era un gran sole, e sono saliti su una specie di torre dove c’era un elicottero, come quello con cui gioca con Fabrizio, solo molto molto grande, e anche tante altre persone. E poi sono saliti, e improvvisamente si è sentito leggero come una piuma. Anche se gli sembrava che andassero pianissimo, hanno sorpassato tutte le barche che si vedevano giù a mare, e sono arrivati quasi subito. E stato bello, ma è durato così poco. Quel giorno, in segreto, ha deciso che avrebbe imparato a volare. Perché così poteva vedere tutto il mondo come un disegno, e se ne aveva voglia, forse, poteva anche usare una grande gomma per cancellare le cose che non gli piacevano, e ordinarle o colorarle con i colori più belli. Il nonno poi era raggiante, perché aveva vinto la partita con la nonna uno, quella che è la mamma di papà. E già, perché il Venerdi è il giorno della nonna uno, e lei, poverina, è sola con la sorella, che è zia Autilia l’insegnante, e non ha tutti i soldi che ha il nonno. Però li porta sempre al cinema, e a giocare con i bimbi al parco, e nella Villa Floridiana. E poi li lascia giocare a pallone nel salone di casa, insieme a Annina, la figlia down della signora del piano di sotto. Annina, che quando ride lo fa come nessuno dei bambini che Step conosce. Sembra che la sua risata non sia solo un disegno sulla faccia, sembra che è davvero felice, e poi gli vuole bene, a lui e Fabrizio, e ogni tanto ruba la palla, la nasconde e dice loro che il prezzo per riaverla è un bacio forte, e un abbraccio strettostretto. Step la abbraccia, e la tiene così stretta che quasi non ce la fa più. E Annina gli dice sempre grazie, e poi si mette a ridere, e si piega in due, e tocca quasi terra con la testa. Forse la potrebbe sposare da grande. Certo non è bella, anzi è abbastanza brutta. Però Step si è accorto che lei è brutta perché glielo hanno detto alcuni bambini, lui non ci aveva fatto caso. Allora ha detto che è vero che non è bella, ma in segreto pensa che sia bellissima, e sia davvero buona, un po’ come il pane e la marmellata, che resti tutto appiccicato, ma contento di averlo mangiato. Insomma Step vive una vita un po’ tutta sua, davvero simile a un sogno, dove succedono tutte quelle cose che i suoi amici gli raccontano che vorrebbero fare, e lui invece le fa davvero. A volte gli capita di confondersi, e non sapere, quando ricorda le cose, se sono successe davvero o le ha sognate. Ma poi non importa, pensa. Importa solo che lui se le ricordi e siano belle da ricordare. E da raccontare a tutti, appena glielo chiederanno. E glielo chiedono sempre di raccontare le storie. Tutti lo fanno, il papà, la mamma, le zie, e anche i cugini o gli amici. E gli dicono che è bravo a inventarle e raccontarle. Step gli dice grazie, e si fa rosso, perché odia sentirsi così. E poi lui sa che non gli crederebbero mai se dicesse loro la verità, cioè che lui non le inventa quelle storie. Quelle storie sono i suoi ricordi…sono la sua storia.

E poi c’è papà, superman, che arriva tardi la sera, però lo aspettano per mangiare tutti insieme. E papà almeno due volte alla settimana, raduna tutti i cuginetti coetanei, e qualche amichetto un po’ speciale per Step e Fabrizio, e porta tutti in pizzeria, o a mangiare un gelato, spesso al cinema a vedere i film documentario sul mare, che a Step piacciono tanto, oppure i film dove si ride. E fa le foto e i filmini. Poi li rivedono insieme, e nei filmini Step gioca, ride e sorride. Nelle foto invece ha quello sguardo altrove…dove?

Step ha sedici anni, è sempre molto bravo a scuola, ha un profitto ottimo, ma una condotta pessima. Litiga sempre con i professori, ha amici dappertutto, è una specie di Che Guevara in erba. Si batte con i bulli quando prendono di mira un ragazzino debole, e lo fa con le parole, perché odia la violenza fisica. Perché pur avendo un fisico tonico, grazie ai millecinquecento sport diversi che pratica, detesta usare le mani. La mamma gli ha sempre detto che con la parola si ottiene sempre più che con la forza fisica. E lui fa sport, ama correre sulla terra rossa ad acchiappare una pallina con la racchetta, tuffarsi in acqua e lasciarsi il mondo dietro le spalle, correre e saltare gli ostacoli ogni tre passi e mezzo…E piazzarsi in mezzo al campo di calcio a contrastare l’avversario, e rubargli la palla, fare una finezza e poi lasciare a un compagno l’onore del gol…A Step non piace segnare goals, a Step non piace gareggiare, non gli importa vincere. E un sacco di gente si chiede perché non si impegni un pochino di più, e non sanno che non è ‘ché non si impegni, è che non vuole vincere…Perché poi, quando hai vinto, ti danno una coppa o una medaglia, e poi ? Poi che succede ? Finisce tutto ? E poi con la vittoria tutti saprebbero che è arrivato da qualche parte, e non lo sosterrebbero più nella gara dopo, invece se non vinci fai in modo che si chiedano come mai, e ti stiano dietro a darti una carica, che seppure pubblicamente fingi di non volere, sei felice che te la diano. E poi se vinci ti chiedono di fare di più…E Step è anche un pochino stanco e vorrebbe riposare, andare lontano, per sempre, su una nuvola, dove nessuno gli possa chiedere nulla, dove poter decidere di cadere giù senza nessuno a dirgli, in un silenzio assordante, di non farlo. Step ricorda che non gli facevano mai mettere la manina piccola sul marmo del camino, perché scottava. Forse Zia Autilia gli avrebbe permesso di scottarsi, ma lei non era una brava insegnante, perciò era stata cacciata da scuola. E forse anche quella strana amica di Zia Autilia, quella che era sempre con lei, e la zia teneva la sua foto, che strano, sul comodino…Si chiamava Sisina,e non ha mai saputo il diminutivo di quale nome fosse, e veniva spesso a casa mentre faceva lezione, e si comportava come fosse casa sua. Si volevano molto bene, sicuramente, si sentiva. Una volta papà gli ha spiegato che lei, Sisina, era la compagna di Zia Autilia, e che questo era stato una specie di scandalo, perché non si erano preoccupate di tenerlo nascosto. E allora era diventato un casino mantenere il lavoro nella scuola e tutta la famiglia le aveva un po’ schifate. Allora papà e i suoi amici strani avevano organizzato una scuola privata, e facevano pagare una retta e zia continuava a insegnare. “Cazzo, forte mio papà, e buono “ aveva pensato Step. Però si era anche chiesto come mai la scuola si occupava dell’amore di zia Autilia, che gliene fregava a loro? E quando, non trovando una spiegazione da solo, aveva chiesto a papà lui gli aveva detto che la gente si impiccia sempre dei fatti degli altri così si dimentica dei suoi. Poi scappa nelle chiese a dare soldi ai preti e si compera le assoluzioni , e poi tutta una serie di cose che Step si è scocciato di continuare a sentire, e ha acceso lo stereo è si è messo a sentire Neil Young che canta Harvest, e a pensare se i campi di grano in America sono gialli come quelli della Basilicata, e i contadini di laggiù lavorano nella stessa maniera. E ha chiesto a papà una chitarra che vuole imparare a suonarla. Naturalmente gliene ha comperata una classica e una elettrica, con l’amplificatore Montarbo. Ma può suonare poco perché mamma si incazza per il casino. Cominciano a non andare più tanto d’accordo. Step a volte vorrebbe essere un aquilone che si spezza il filo e vola via chissà dove.

Step passa anche tanto tempo a leggere libri, libri interessanti, almeno per lui, non quelli che fanno leggere a scuola. Sin da quando era piccolo gli hanno sempre regalato tanti libri. Ricorda ancora il primo. Era Moby Dick di Melville, in una rilegatura bella, di pelle rossa. Glielo regalò il nonno al suo ottavo compleanno, e lui se lo lesse tutto in un battibaleno. E gli piaceva così tanto che lo ha riletto mille volte. E ogni volta diventava uno dei personaggi…Quello che gli piaceva di più era certamente Queequeg, con tutti quei tatuaggi e la pelle scura. Da allora ha scoperto che nei libri si può scappare, aprire la copertina, entrarci dentro, e chiudersela dietro, e tutto quello che succede la fuori succede appunto la fuori, e non lo riguarda più. Almeno per il tempo del viaggio nelle parole, e poi fra le parole, e dietro le parole. E ha anche imparato che ogni volta che lo leggi il libro sembra un'altra storia. E, per fortuna, in casa papà ha un sacco di libri, e anche gli amici di papà, e gli prestano volentieri roba da leggere. Certo a volte sembra quasi che si stupiscano che lui legga così tanto. E poi dicono che lui sembra il Giovane Holden di Salinger. Allora si è letto il libro, e secondo lui non si somigliano poi tanto, forse solo per le sigarette che ha cominciato a fumare, in numero esagerato…mah, forse anche lui è come un libro, diverso per ognuno che lo legge, e sicuramente diverso da quello che pensava chi lo ha scritto. Ma poi che importa.

Questa sua passione per la lettura ha fatto si che stabilisse un buon rapporto con la prof di lettere. E lei lo chiama spesso a leggere per la classe, o dare una opinione sui brani che studiano, spiegare. E ancora una volta si trova ad essere lui a dare spiegazioni e risolvere problemi che magari toccherebbero ad altri. Ma non importa, è come routine ormai, ed è allenato e abituato. Tanto da aver quasi dimenticato di essere un sedicenne e solo un alunno, uno studente. E ha pensato che la prof avrebbe, a questo punto, potuto essere una sua “amica”, una a cui poter raccontare cose che esulavano dalla scuola, dei libri che lui legge, di come si sente e cosa sente. Ed è rimasto male, molto male quando ha detto alla prof che stava leggendo Burroughs, e quella si è un po’ incazzata. Perché, si è domandato. E non le ha chiesto il perché, si è solo allontanato un po’ da lei, e ha cercato di capire da solo come mai. E si è chiesto se non fosse stato lui a farla arrabbiare, magari per essersi posto nel modo sbagliato, e quando ha finito il libro ha pensato che l’incazzatura fosse dovuta al fatto che “Ragazzi Selvaggi” parla di inculate fra ragazzi, e droghe e strani riti. Certo lo ha sconvolto un poco quel libro. Per la prima volta si è sentito aperto e invaso dal libro. Quei ragazzi che, selvaggi, si toccano, si godono, si giocano la partita della pelle. E un libro “afoso”, lo fa sudare. E poi gli fa tirare l’uccello, più di una figa, “perché è perfettamente modellato sulla superficie interna del mio corpo” ha pensato Step. Poi si è messo nudo dinanzi allo specchio, si è guardato e si è trovato ben fatto, proporzionato, tonico, con un cazzo tra le gambe, funzionante con le ragazze. Decisamente maschio, certamente maschio. E si è chiesto se ne fosse certo. Ha ricordato la sua prima scopata, a quattordici anni, e poi quelle successive, non tantissime, ma abbastanza. E in verità si è sentito un pochino stranito dal fatto che avesse erezioni continuamente leggendo un libro dove il sesso raccontato è solo fra ragazzi. Dove non c’è una femmina a pagarla a peso d’oro. Si è anche chiesto se fosse il caso di preoccuparsi, ma il pensiero è svanito subito. “Se non funzionassi più allora…ma visto che funziono, e soprattutto visto che il mio corpo apprezza questa cosa, vuol dire che deve essere così, per cui”. Oddio, forse se lo avesse avvisato, Antoine, il francese pittore un po’ pazzo amico di papà, a casa del quale lo ha preso, che quel libro era così, forse non lo avrebbe aperto. O forse lo avrebbe fatto lo stesso, anche perché la copertina lo ha subito intrigato, semplicissima, bianca, scarna, con un rigo rosa e il titolo in nero. La semplicità assoluta. E vero quello che dice papà, le cose più sono enfatizzate, meno pregnanti sono, più sono importanti e meno necessitano di enfasi. Cacchio. Allora ‘sto libro deve essere pesantissimo…e importante. E gli ha fatto venire voglia di sapere qualcosa di più di chi lo ha scritto, e ha scoperto che è uno che mangia oppio, si fa di eroina, si stravolge ad alcool…un folle, uno fuori dagli schemi del mondo. E si è chiesto perché la prof di lettere non gli ha detto ‘ste cose. Che cazzo ci sta a fare lei li, se non spiega questo ai ragazzi. E si è anche ricordato di zia Autilia, che l’hanno cacciata perché amava una donna. E ha deciso che allora il mondo che lo intriga di più, quello più divertente, quello più…vero, è quello dove ci sono le persone che sono ciò che sono e se ne fottono di ciò che devono essere. E poi a casa sua vengono sempre amici di mamma e papà, e sono normali, almeno per lui. Sono sposati, hanno i figli e sono anche persone che lavorano. Però ci vengono anche i pittori colorati e con i capelli lunghi, e c’è quell’altra, l’amica di Zio Willy, che prima era un uomo e poi adesso ha le tette, ed è simpaticissima quando , in montagna va a fare pipì e la fa in piedi perché c’ha l’uccello. E tutti si fanno delle gran risate, anche se qualcuno disapprova che lo faccia davanti ai bambini più piccoli…E perché? Che dovrebbe fare, far finta di non esistere, o fingere di avere la figa e fare tutte quelle manfrine per cercare un posto lontano dal mondo per una pisciata? E poi è divertente anche la faccia che fanno i signori nei bar, quando si fermano per un caffè, e scendono tutti dalle macchine, e lei “la Rina”, perché il suo nome era Gennaro, dice “ ora vado io a ordinare”, e tutti si zittiscocno, e guardano, e lei caccia il suo vocione di maschio. E quella alla cassa si fa rossa, e i tizi che sono al bar si girano tutti, e certamente vogliono morire, perché un minuto prima si sono voltati a guardarla mentre, bella, abbronzata e sensuale, camminava sui suoi zatteroni e nella minigonna. Mamma dice che è la persona più bella che abbia mai conosciuto, e la più coraggiosa in assoluto, e papà ci fa a braccio di ferro, e anche se è robusto e forte deve faticare per vincere.

Step ha provato a parlare con la prof di lettere, perché gli manca il loro rapporto un po’ speciale. Vuole ricucire lo strappo, e vuole parlarle del libro di Burroughs, delle sue sensazioni, e pensa di farlo in classe, così potrà condividere con tutti ‘sta cosa strana che gli succede quando lo legge. Ovviamente non pensa di raccontare che si è sparato qualche sega ripensando a quelle immagini che il libro gli ha rimandato. Pensa di parlare del suo turbamento, e parlarne con una che di libri e turbamenti dovrebbe saperne qualcosa. Pensa di comportarsi come gli hanno insegnato in casa, con chiarezza, e ci crede che nel mondo ci si muova così. E poi a casa gli dicono sempre che a scuola bisogna discutere, sennò uno che cazzo ci va a fare. Le cose si possono anche imparare sui libri a casa, a scuola insegnano a vivere insieme. “Deve essere così” pensa Step, e approfitta di quel momento particolare, poco prima che si cominci la lezione e ancora si stanno tutti sedendo ai banchi, per avvicinarsi alla cattedra. Accanto a lui ci sono Giampiero e Marco, con cui ha parlato del fatto di voler parlare alla prof di un libro che ha letto. Ma quella si è incazzata di nuovo, anzi ancora di più. Senza dare spiegazioni, si è incazzata e basta. Per un attimo Step ha pensato che fosse perché non conosceva il libro, e non sapeva che dire…ma poteva ascoltarlo almeno. Lui non voleva poi parlare del libro, ma di ciò che aveva provato a leggerlo, e stava provando. Niente. E allora Step le ha detto di andare a prenderlo nel culo, e glielo ha detto in classe, davanti a tutti i compagni. E quella, che fino a un mese prima lo amava perché era preparatissimo, si è fatta rossa come un pomodoro, e ha scritto sul registro…e il preside lo ha sospeso, e condannato a tornare dopo cinque giorni accompagnato dai genitori. Step è montato sulla moto, e con fare sdegnato se ne è andato…non a casa, ma al mare, e ha raccontato alle onde che non capiva che cosa stesse accadendo. E ha detto alle onde che non poteva arrivare a casa e dire di essere stato sospeso. A casa lo stanno ad ascoltare e però gli hanno anche detto che non deve cedere all’ira . Perché questo è sempre stato un problema di Step. Quando si incazza lui non si incazza un poco. No, lui diventa una bestia, un toro furioso dopo che gli hanno infilato le banderillas sul groppone. Perché Step ha sempre tanta pazienza, e sta sempre a ascoltare tutto il mondo, e cerca sempre di trovare il modo migliore e il momento più idoneo…insomma lui sa di essere sempre attento agli altri, e accorto nel porsi. E anche quando le cose vanno come lui non vorrebbe, si mette a pensare, a cercare di capire se ha fatto la cosa giusta, se per caso non sarebbe stato meglio fare in altro modo. Poi quando non ha più dubbi si muove. Come dice Donny, il suo amico americano chitarrista, bisogna imparare a non agire. E Step cerca di applicare questo insegnamento…non agire. Ma non è sicuro di aver capito cosa significa. E allora scatta come una molla, con tutta la forza dei suoi sedici anni, e tutta l’energia accumulata nei silenzi di secoli di attesa che qualcuno gli spiegasse perché il suo “sguardo altrove”, visto che lui non lo sa. E ora dovrebbe andare a casa a dire di essere stato sospeso? E perché poi ? Per aver letto Burroughs ? Perché il problema era quello. E poi è stufo di andare a casa e spiegare, sempre. Basta essere sempre così tutto perfettamente a posto e vaffanculo. “ Questa volta faccio come mi dice il mostro che ho dentro e non come mi dice l’angelo. Lascio volare il pipistrello fuori dall’inferno”. Allora Step è tornato a casa, ha aperto il diario dei sogni, perché Step lo tiene ancora il diario dei sogni, e ha scritto, ha scritto, ha scritto. Poi ha aperto quello degli anni delle scuole elementari, ha cercato le carezze infinite, e hanno funzionato. E ha mangiato di nuovo quelle graffe calde e sentito lo zucchero appiccicarsi sulle guance, e le risa di Fabrizio mentre gli schizzava l’acqua. Poi è andato a guardarsi allo specchio, e ha visto che non sorrideva più, ha visto quello sguardo altrove, lo stesso delle vecchie foto di quando era un bambino felice. Cazzo, le foto. Le ha recuperate, guardate, studiate, e non ha capito un bel niente, si è solo trovato come dinanzi ad uno specchio, però in un corpo alto il doppio, un accenno di peluria sul labbro e sul mento, con i peli sul cazzo. Dove guardava quello sguardo? Dove guarda questo sguardo? A chi glielo chiedo ? Zia Autilia è morta da un paio di anni…forse lei gli avrebbe detto dove cercare la risposta, in quale libro andare a guardare. Zia Autilia non c’è più, e a volte non gli basta ricordarsela, vorrebbe sentire la sua voce squillante, il suo odore di borotalco. E vorrebbe avere qualcuno che gli raccontasse una fiaba, e non c’è nessuno che sia disposto a raccontare una fiaba ad un adolescente, alto, forte e colto…e allora ha messo su la favola di “Pierino e il Lupo” raccontata da David Bowie, e ha deciso di sognare. Ma non è più facile come prima. C’è bisogno di qualcosa che lo aiuti. Visto che non c’è nessuno…Chi può aiutare uno che ha sempre saputo fare da se, che ha sempre aiutato gli altri ? Dovrà farlo da solo. Ma come ?

Da qualche tempo Step vede una ragazza, che è molto carina e molto intelligente, una con cui parlano un casino, soprattutto di notte. Con il padre di lei che si incazza, perché Step le telefona alle tre del mattino, magari solo per chiederle a che punto è arrivata con la lettura di “Opinioni di un clown”, oppure se le va di mettere su il disco dei Roxy Music e ascoltarlo insieme, ognuno a casa propria, e masturbarsi, che è un po’ come fare l’amore. Come quando rubano le chiavi della casa al mare di lei, e ci vanno in moto, e scompaiono mentre tutti li cercano. Il loro mondo segreto. Segreto perché poi, durante la settimana, la loro vita pubblica è incasinata da tutta la gente che la frequenta, alla quale verrebbe voglia di urlare “siamo diversi”, e invece manca il coraggio di farlo, e allora si va a fare cose che non gliene può fregare di meno. E poi Daniela va in una scuola frequentata da tutti fighetti e fighette snob, che Step lo vedono come un pugno in un occhio, per via dei capelli lunghi e gli orecchini, oppure come “lo strano” da esibire, come il jolly che ti fa vincere la partita a carte con gli amici. E sembra che nessuno lo veda come è, semplicemente un adolescente con le sue paure. E poi Step adesso ha una nuova avventura che sta vivendo, e lo sa solo Daniela. E Daniela, pensando di far bene, non ne parla con nessuno, mantiene il segreto sul segreto di Step, che invece vorrebbe essere aiutato a non tenerlo segreto. Step trova assolutamente normale assecondare il sogno che sta vivendo con Mauro. Step non ci trova nulla di assurdo ad assecondare questo amore che lo sta legando sempre più a ‘sto ragazzo. Un amore nato con una chitarra e una batteria a fare da ruffiani, i segreti liberati, le carezze sui corpi giovani e snelli, il gusto per la trasgressione. I viaggi a tre, lui, Daniela e Mauro, chiusi nella camera, stesi sulla moquette color mattone, con Peter Hammil o con i King Crimson, e la bottiglia di Bourbon e centomilioni di sigarette. Però a Step tutto questo non basta, o meglio, lo soddisfa, ma perché questa sua vita, questa sua natura deve diventare un ostacolo al mantenimento di altre relazioni? ”Perché” si domanda “i miei amici di sempre, quando scherzano tra loro, per offendere qualcuno lo chiamano ricchione ? Se lo fanno sarà perché pensano sia una cosa vergognosa…e allora io come faccio a dir loro che mi sto innamorando di Mauro? Che spesso ci masturbiamo insieme, a volte scambiandoci la mano, o i cazzi? Come faccio a raccontar loro che a questi giochi, che per me sono naturali, partecipa, talvolta anche Daniela, e che le piace? Come li etichetterebbero , a Mauro, e Daniela…e anche a me?”.

Allora devo andare a realizzare un mondo a parte in cui vivermi completamente, ma come faccio se nel mio mondo c’è posto per tutte le categorie umane, basta che le ami, che abbia avuto un rapporto con loro? Come cazzo faccio?...a escludere persone con cui sono cresciuto, a favore di nuovi amori, oppure a negarmi i miei amori e le mie passioni, perché non condivise, non accettate da loro? Perché la professoressa di lettere non mi ha più voluto bene come prima quando le ho detto di Burroughs? Perché nessuno mi spiega dove guarda questo cazzo di sguardo altrove che adesso è sempre più presente sul mio volto?”.

Step adesso si domanda un sacco di cose che prima non si chiedeva, e sa che le risposte dovrà trovarle da solo. Sa che seppure ne parlasse non risolverebbe un cazzo di niente. E prende una decisione. Una decisione definitiva, che consiste nel non negarsi le cose che ama, e anche se sono in contrapposizione tra loro, lui troverà il modo di soddisfare le sue passioni , amando tutti, e ognuno in particolare. Questa è la panacea, la motivazione che gli permette di essere amico del suo più vecchio amico, di frequentare la vecchia compagnia omofobica, ed essere uno che va con i maschi a scopare nelle discoteche gay, a cenare negli ambienti fighetti con Daniela e suoi amici, e poi andarsi a nascondere con lei e Mauro nella casa al mare. Basta non far incontrare ‘sti mondi tra loro, e va tutto bene. Step poi riesce a mantenere sempre un aura di mistero intorno a se, e questo gli fa gioco…lui è sempre stato “strano”, per tutti, per cui è un gay maschio e maschile, un maschio gentile, un ricco comunista, un compagno che condivide con i compagni...

E sembra finalmente tutto sistemato. Eppure allo specchio, continua a esserci quello sguardo altrove. …Step sta andando al manicomio perché si sente scontento, insoddisfatto, e forse è anche vicino alla comprensione di dove sia la risposta al suo sguardo altrove.

Step si sta avvicinando a una svolta della sua vita, definitiva, e sa che deve fermarsi ora, o non potrà mai più. Ma sa anche che fermarsi significherebbe crearsi un bel rimpianto, enorme, da portarsi dietro per tutta la vita, pesantissimo. Certo sa anche che, la dove sta andando, ci saranno problemi e casini ancor meno condivisibili, ma …Decide allora di parlare a casa con papà e mamma. Non dice loro esattamente cosa gli stia accadendo, non spiega che ama un maschio, che scopa con lui e con una ragazza, che si sta lacerando. Dice semplicemente loro che al momento è felice di poter essere come è. Papà e mamma si sono accorti che lui è innamorato di Mauro, e che Mauro pende dalle sue labbra, e gli dicono che, se è quello che sente, va bene così, che lui resterà sempre il loro adorato Step. E Step pensa di aver risolto tutto in quel momento, mentre in realtà, dentro di se, sa che ha aggiunto un altro tassello al suo disastro interiore. Perché ancora una volta ha trasmesso una sicurezza che non ha. E ora sarà ancora più difficile andare a chiedere aiuto. Da papà e mamma non è andato a chiedere aiuto, è andato a chiedere il consenso per la sua scelta, comunicandogli una certezza incerta. Ed è stato malissimo, perché si è accorto che lui, che credeva di aver imparato tutto, non sapeva chiedere aiuto. Addirittura quando mamma gli ha chiesto se fosse sicuro di volersi vivere la storia con Mauro, se avesse pensato bene se fosse una scelta definitiva o un momento, comprensibilissimo, Step ha tirato un pugno nel vetro della porta, lacerandosi la mano. Come ad affermare la sua forza non percepita dalla mamma, che invece forse ha capito un po’ meglio di lui. Che certo ha percepito la sua insicurezza e gliel’ha riverberata. Quel pugno lo ha tirato a se stesso, alla sua vigliacca spavalderia. Ed è andato in ospedale, dove gli hanno messo dieci punti sul palmo della mano, e accanto a lui c’era Mauro a stringerli l’altra mano e tenergli la sua sulla fronte, e c’era papà che lo ha accompagnato, stordito, incredulo per quanto stava accadendo, come in uno stato di sonnambulismo. E, dopo i punti sulla mano, e le domande idiote del “uniformato” del drappello, che ha chiesto, dopo che gli hanno tolto mille pezzi di vetro da dentro la mano, se in realtà non fosse stata una coltellata. Come fosse normale che uno, dopo una coltellata, si infila pezzi di vetro nella carne !!! Dopo la cucitura e la fasciatura, se ne è andato con Mauro a bere Bourbon, e poi a fare sesso nello studio di papà di cui ha le chiavi. E ha suggellato con il sangue un patto con se stesso, e con la sua scelta, rendendola definitiva. Lasciarsi cadere dalla nuvola, spezzare quel cazzo di filo che mantiene l’aquilone, e volare via, lontano, e precipitare dentro se stesso. Dare ciò che gli serve per avere, e vaffanculo, che si è rotto le palle di dover spiegare, senza che qualcuno gli spieghi. Ha anche pensato che probabilmente lui non è affatto molto sveglio, anzi, quasi certamente non ha capito un cazzo della vita. Ma ora è troppo tardi per cambiare tutto quello che è diventato, che è successo. Ha messo nastro adesivo intorno alla sua argilla, ha usato ago e filo per suturare le ferite. Step ha perso un sacco di sangue, e poiché non è un chirurgo certamente le ferite andranno a male, e perderà ancora tanto sangue…ma ha deciso che sarà così, anche perché non saprebbe che altro decidere. Farà l’amore ancora una volta con Mauro, il piccolo, dolce amato Mauro. Gli mancherà dove andrà. E tutta questa devastazione Step sa che deva contenerla da qualche parte, che deve tracimare le sue emozioni, e che non gli basta Mauro, non gli bastano i suoi libri ne’ la sua musica. Che tutta ‘sta roba ha bisogno di essere messa al sicuro, in qualche parte che sia accessibile solo a lui. Il diario dei sogni non basta più, ci vuole altro…Deve provare a mettere fine a questa agonia. Perché quel sorriso, quella gioia, sono roba vecchia. Adesso c’è una sofferenza atroce, e, forse, il vero piacere di una risata quando arriva, forse la vera felicità che dura una frazione di secondo. Ma non ce la fa a ripagarlo. Step si è convinto di non essere mai stato davvero felice, di aver passato un’infanzia e una adolescenza in un film, carino, certo, ma un film. Di non aver imparato tante cose che gli sarebbero servite e ora non sa a chi chiederle.

Step stasera è andato da solo a cercare un tizio che vende una polverina. Dicono che allunga i tempi, che annulla i dolori. E Step ha pensato che, dato che sente un dolore enorme, gli serve una quantità grande di polverina. L’ha sciolta in un cucchiaio, l’ha aspirata, ne ha sentito l’odore forte e acre. L’odore che forse seduceva anche Burroughs. Ha scritto una pagina del libro dei sogni, raccontando il suo brutto sogno, e poi si è messo l’ago nella vena, ha premuto lo stantuffo, e si è addormentato. Forse poi il brutto sogno sarà svanito quando si risveglierà…ma Step non si è più risvegliato, è scappato nel libro dei sogni, dove la carezza è infinita, l’odore del pane , gli schizzi d’acqua con Fabrizio, le graffe calde e lo zucchero sulle guance, e le carezze di Mauro, e la figa di Daniela…dove guardava quel suo “sguardo altrove” delle foto. Step ha capito che per capire quegli attimi bloccati dagli scatti doveva bloccarsi, fermarsi, e lo ha fatto. Step si è fermato, per sempre.