Il ponte

Il ponte
Quadro di Enzo De Giorgi

sabato 24 aprile 2010

Rote Sterne




Kata Tjiuta

Kata Tjiuta è il nome con cui viene indicata la figura dello Sciamano dagli aborigeni australiani. La traduzione suona come “ Molte Teste” e sta ad evidenziare la capacità dello Sciamano di racchiudere in sé tante coscienze, la sua e quella dei progenitori, caratteristica che gli consente di avere e mantenere il ruolo di guida spirituale e punto di riferimento, per sé e il suo popolo. Che gli assegna il compito di trasmettere il suo sapere agli iniziati, e garantirsi così la sopravvivenza, la possibilità di poter morire senza mai perire. Mi vien fatto di pensare che un uomo davvero libero è colui il quale riesce ad essere Sciamano a sé stesso, ed iniziato egli stesso. Colui che fa del passato uno strumento con il quale costruirsi un futuro, che assorbe l’esperienza trasmessagli e quella esperita in prima persona, che si affranca dall’appartenenza intesa come vincolo irrisolvibile verso il cambiamento. Colui che tiene presente il passato come non mutabile, certo, ma sicuramente mutuabile nel presente. Il passato quale àuguro di un presente e un futuro con connotazioni proprie, a loro volta mutuabili nel futuro di sé.



“Rote Sterne, weisse wine”


…e solo i “pazzi” sono in grado di dare davvero amore non mediato dalle convenzioni dei rituali. I “pazzi”, l’unica categoria rappresentata da individui davvero tali, non omologabili, uomini sovente ghettizzati e etichettati, per la convenienza a la salvaguardia delle coscienze dei “normali”, che non sono poi certo lo siano affatto. Io, un “pazzo”, uno di loro, uno “fuori”, nel senso di oltre, al di là, in una dimensione diversa, in un nuovo luogo dove siamo tutti armoniosamente soli insieme. Dove la consapevolezza della solitudine diventa valore inestimabile, e ci permette di scambiare, in un baratto ideale, le nostre più grandi ricchezze, le nostre emozioni.
Io, perso nei miei pensieri, sospeso fuori dalla finestra, che guardo dentro, dove tutti i “non folli” si arrabattano alla ricerca di una uniformità impossibile e irrealizzabile, perché non naturale, e si battono, e inventano mille nuovi assiomi, che lo sono solo per loro che necessitano di guide scritte, spesso da altri, forse perché incapaci di trovarne dentro di sé. Pagani inventori di un dio unico per tutti, e invece dio è unico solo per me, ed è diverso dal dio unico solo per te, e questo li rende uguali, semplicemente perché ugualmente diversi. E penso…solo i “pazzi”, quelli capaci di continuare a credere fino alla fine, quelli capaci con un sorriso di dare sé stessi completamente, un sorriso pieno di dolore, di malinconia. Capaci di dirti :”ehi, guarda che ci sono anche io in questo deserto, ma non per questo lo rendo meno deserto per me, ne’ per te”. Un deserto e il suo calore, un deserto fatto di anime arse dal fuoco fioco delle relazioni dovute e non sentite. Assorto dentro i miei pensieri, seduto in questo bar, in un luogo sospeso in un tempo che non c’è, un tempo suo diverso dal mio.
Il “Rote Sterne” è una struttura di pietra che ha almeno duecentocinquanta anni, e insiste in un territorio preciso, Marburg, cittadina universitaria nell’Essen in Germania, ed è qui da sempre e ci resterà, mentre io sono un corpo semovente con una mente che insiste in sé stessa, che può spostarsi in un nonnulla altrove. Questo pomeriggio mi sono parcheggiato qui, con in mano un bicchiere di Porto Vasconcellos di Vila Nova da Gaia, bianco, invecchiato, capace di raccontarmi la storia del falegname che ha costruito la botte in cui è maturato, di farmi sentire le cicatrici sulle sue mani che diventano le mie mani, con le quali mi ritrovo a stringere la mano annerita dell’uomo che ha staccato le pigne d’uva dalla vite, di portare al mio olfatto l’odore del seno di latte della madre dei suoi figli, alla sera quando, dopo una cena consumata in fretta, vi nascondeva il volto e si addormentava, diventando lui stesso il figlio della sua donna. Un vino capace di staccare un ricordo dalla mente e ri-portarlo dinanzi ai miei occhi, di regalargli una vita propria e renderlo capace di raccontarsi a me che l’ho partorito…e rammentarmi di quell’anno passato in Portogallo, tra Lisbona, Porto, Coimbra e la casa di campagna di Oliveira de Azemeis. Con l’amore di Juan e lo spettro della morte di Angel, volato via a cavallo della disperazione per aver contratto l’A.I.D.S., sospinto nel vuoto dal rimorso sposato al non rimpianto. Per aver semplicemente vissuto la vita, l’unica che ha avuto, come ha potuto, come ha saputo, come aveva imparato a viverla da solo considerato che nessuno gli aveva mai insegnato, e chi e come avrebbe potuto farlo, in che maniera viverla. Angel che vive pur essendo morto, perché è dentro tutti noi che l’abbiamo incontrato. Angel il cui sorriso continua a illuminare le mie notti buie, e darmi gioia e forza…E ritorno in Portogallo, ri-vivo quei tempi, quelle notti e quei giorni, e lo sento Angel, che ci esorta, Juan e me, a viverci ed amarci se lo vogliamo davvero.
“Presto, facciamo presto, viviamo intensamente le nostre vite” ci dicevamo Juan e io. “Facciamolo ora, e lasciamo fuori da noi le nostre paure, e i loro giudizi affrettati…e stiamo attenti, e smettiamo di immergerci nell’eroina, saliamo di nuovo in superficie a goderci il sole di questa meravigliosa terra”. E allora scendevamo in garage a prender l’auto, e correvamo con il vento nei capelli e nel cervello, a spazzare le polveri inquinanti delle maldicenze, e dei nostri pregiudizi verso chi ritenevamo ne avesse, inconsapevoli di essere i proiettori di noi stessi sullo schermo delle espressioni altrui.
Via di corsa sino alla lunghissima spiaggia di Espinho, via tutti gli abiti, via anche le mutande e di corsa nell’acqua gelida dell’Oceano Atlantico, dove restavamo immersi sino a che non sentivamo di aver spurgato le nostre anime da tutto lo sporco, di nostra produzione e residuo di quello tramandatoci dai nostri avi con le loro tradizioni, i loro miti, le loro appartenenze che ripudiavamo ma a cui, sovente, soggiacevamo nostro malgrado. E poi, seduti stretti l’uno all’altro, sotto l’accappatoio, sulla sabbia calda, ad aspettare la bassa marea, sino al calar del sole. Solo allora, quando le acque si ritiravano di quasi un chilometro, scoprendo il territorio lunare sotto la superficie e trascinavano nel profondo del mare le nostre scorie, ci sentivamo finalmente liberi di volare. E dimenticavamo il mondo dietro le nostre spalle, e disegnavamo la nostra “neverland” sull’orizzonte rossastro, e incontravamo di nuovo il caro Angel, finalmente libero, prima che dalla malattia, dai suoi rimorsi. E restavamo ad ascoltarlo, in silenzio, mentre ci sussurrava di non averne di rimorsi, almeno noi, di non procurarcene. Quasi a supplicarci di non sprecare tempo. E sentivamo che la sua supplica altro non era che la nostra supplica a noi stessi, a trovare quel coraggio per essere fino in fondo.
Solo allora ci alzavamo, infreddoliti, ci rivestivamo e andavamo a rifugiarci in un piccolo localino sul lungomare a mangiare pesce cotto alla brace o “bacalao brasa”, e poi a imparare, ad ascoltare e ballare strazianti Fado in qualche vecchia bettola, piena di anziani pescatori anneriti dal sole, bruciati dal sale, e vecchie meretrici incantatrici. A nutrirci del loro sguardo infinitamente blu, della loro esortazione a essere capaci di resistere e provare a diventare vecchi come loro, sapienti come loro, a ritornare bambini come loro, così tanto pieni di vita vissuta da essere diventati finalmente leggeri. Allora, quando tornavamo a casa, nella vecchia casa di Oliveira de Azemeis, ci addormentavamo consapevoli di stare a sognare lo stesso sogno, a credere che questo lo potesse trasformare in una quasi realtà. A crederlo sino al mattino, quando prima la tosse poi i conati di vomito, ci facevano scattare sull’attenti. “Passa el mono, la scimmia, e dobbiamo prostrarci ai suoi piedi” e penetrarci, non più con i nostri membri ma con gelidi aghi di acciaio, e inondarci di caldo liquido ambrato. Che momenti terribili, momenti terrifici, quando senti che non ti stai amando, e hai un bisogno disperato di essere amato da qualcuno fuori di te…era allora che il nostro amore diventava imprescindibile per sopravvivere, per continuare a “credere” in un futuro diverso, per mantenere in vita il folle progetto di ri-generarci nuovi. Ragionammo Juan e io, e capimmo che la nostra possibilità di salvezza era solo una. Era aprire il baule dove erano seppelliti i nostri dolori più profondi, era armarci delle nostre forze residue, brandire le poche armi rimaste con coraggio, e affrontare i mostri. In una battaglia campale, con ferite le cui cicatrici mai si sarebbero potute, ne’ dovute, cancellare, perché monumenti alla forza, al sangue, alle lacrime. Sepolcri dei nostri tanti io fasulli, affrontati e sconfitti.
“Ma quanti cazzo sono, quanti siamo qui dentro di me, quanti siete dentro di lui,quando finirete di moltiplicarvi” ci chiedevamo.
E ogni giorno un nuovo insegnamento che arrivava da un nuovo fallimento, sino a capire che era il momento di riempire i vuoti interiori dentro cui i mostri nascevano, si fecondavano, si moltiplicavano. E ci domandavamo cosa ci servisse, di cosa avessimo bisogno.
“Di cosa sei vuoto Juan? Di cosa hai bisogno davvero? E io ? Cosa mi serve ?”.
“Andiamo a riempirci di quello, e facciamolo sino a che asfissieremo la madre dei mostri, e facciamolo insieme sino a quando avremo le stesse mete, e quando non saranno più le stesse per entrambi, allora copriamoci con la coperta del nostro amore, affrontiamo l’inverno gelido del peregrinare solitario che ci attende, ma andiamo !”.
Cazzo se siamo andati, così tanto lontani, prima insieme e poi da soli, da essere tornati. Tanto lontano da ritrovarci seduti qui a Marburg io, a Madrid tu.
A questo tavolino del Rote Sterne di Marburg io, e in un chiringuito al Parque de El Retiro di Madrid tu. A bere lontani, eppure insieme, questo splendido Porto invecchiato.
Insieme lontani, e attorno a noi i pescatori anziani e le meretrici incantatrici delle notti di Espinho, e Angel, e tutti quelli che abbiamo attraversato e ci hanno attraversato. Tutti qui, come riuniti nell’ancestrale rito del cerchio intorno al fuoco, a raccontarci vecchie storie di passate avventure, le giornate di caccia, ad ascoltarci l’un l’altro, a riconoscerci oggi Sciamano, domani discepoli, e poi ancora e sempre e solo uomini soprattutto…
E vuoto il bicchiere, e mi domando cosa ne sarebbe stato di noi se non ci avessimo creduto, se non ci credessimo, se non fossimo dei…”pazzi”?
Continuo a sorseggiare, seduto sulle sedute di cuoio verde, su cui culi grassi di pensatori teutonici hanno elaborato i pensieri che penso anche io. Pensieri che mi penetrano l’anima, la fanno pesante e pensante. Aspetto Sven che arrivi, con il suo sorriso e il suo zainetto pieno di numeri. Bevo e ricordo l’incontro di un paio d’anni orsono.
…Sven e l’incontro su quella scala che porta alla Elizabethkirche. Il suo sguardo stupito, leggero, trapassante…limpida acqua in cui ho scorto nuotare l’ombra del segreto. Ed è stato un attimo, ho deciso di seguirlo, in silenzio, sino alla stazione, dove l’ho guardato salire sul treno, e sparire nel mio rimpianto di non avergli saputo dire neanche ciao.
Era Giugno e stavo per tornare in Italia. Un estate che, sebbene baciata dal sole, mi faceva sentire freddo. Allora tu, Juan, nel mio ricordo a dirmi che non potevo lasciarmi ammazzare dal freddo del dubbio. E a Settembre sono ritornato. A Marburg, sulla scala dove lo avevo incontrato. E ho aspettato, tre mesi, ogni giorno alla stessa ora. Che passasse ancora, o che passasse per sempre il ricordo di un ricordo mancato.
E poi è apparso, sulla bici. L’ho guardato negli occhi, ancora come allora. E ancora l’ombra che nuotava sul fondo del mare. Ci siamo seguiti, io dietro, lui avanti che mi seguiva precedendomi. Sino al fiume, il Lahn, dove ha legato la bici.
Alle panchine, la panchina di Schwulen Park, e si è seduto, ed ha aspettato.
Il mio tedesco incerto, per chiedergli se parlasse inglese. La sua risata imbarazzata, e poi seduti.
La pioggia ha cominciato a cadere, leggera e fredda. Il mio braccio è scivolato dietro la sua schiena, le dita sui lunghi capelli ricci. La sua testa reclinata imbarazzata all’indietro.
“It’s gonna raining…would you like to drink a cup of tea by my place?” gli ho chiesto. Mi ha guardato stupito e mi ha detto che non sarebbe venuto a casa mia, nella casa di uno sconosciuto…poi mi ha guardato, dritto nel cuore, ed ha aggiunto:”yes, I will. And I tell you why…’cause you’ve been so shy to not speak the last summer, ‘cause you seem so insicure, ‘cause you seem like I am…”.
Un paio d’anni orsono…
Il Porto sta finendo, e Sven sta bevendo la sua tazza di cioccolato con il brandy e parlando veloce. Lo zainetto lo porterò io sino a casa. Lui continuerà a raccontarmi delle lezioni di Giapponese, della voglia di volare a Tokyo, del futuro che, sono certo, non ci vedrà insieme. Lo tengo stretto a me, come fosse l’ultimo istante di vita che mi resta. E mi attraversa il sapore del sale del mare di Espinho, il brivido della paura delle battaglie contro i mostri, contro la madre dei mostri. Il freddo degli aghi di acciaio infilati nelle vene, il sapore del sudore tuo, Juan, e l’umido delle nostre lacrime e i nostri cattivi odori mentre eravamo chiusi in casa a combattere le scimmie di anni.
Non ha conclusione la strada, ha solo tanta strada ancora davanti, e in me resta solo la certezza che non la percorrerò mai tutta, che è già tanto essere qui. In questa fredda Germania, nella città dove dormono per sempre i Fratelli Grimm, dove la mia favola si sta ancora scrivendo…
Domani sarò ancora al Rote Stern, sorseggerò altro vino, ricorderò altra vita, e mi nutrirò per vivere quella che ho adesso…


Marburg, millenovecentonovantaequalcosa


Luigi de Gregorio

martedì 13 aprile 2010

Sulla spiaggia della vita





= Moonlight =

...stanotte il richiamo dell'anima, la necessità di scrivere, l'ispirazione attesa a lungo e infine tornata...e allora visioni e musica ad accompagnare il picchiettare sulla tastiera...

La brezza che passa dalle finestre, le fessure della mia vita attraversate dalla polvere soffiata via dai ricordi.

Ricordi…un paesaggio sicuro e lucido. Come il pavè della strada di notte dopo la pioggia. E le certezze della vita raccontata. La scuola andata nel cassetto, l’università e le auto potenti, la moto, i viaggi. Tutto sicuro, certo, chiaro.

Nessun dubbio, solo la mia segreta certezza di non essere ciò che dovevo, che mi si chiedeva di essere, che, forse, avrei voluto essere. Per vivere il sogno come vita e non come fuga dalla vita.

E allora quante notti a passeggio sul lungomare, a guardare i giochi di Luna sull’acqua, a fiutare prede, o predatori che mi facessero preda. La bottiglia di whiskey e la musica jazz, i locali notturni nei quali conoscevo tutti quelli che non mi conoscevano affatto. Gli amici di sempre lasciati da qualche parte. Una scusa, “vado a prendere una boccata d’aria e ritorno”, e invece il pianto silenzioso da solo sul sedile dell’auto, lanciata a folle velocità verso qualcosa. Qualcosa che da qualche parte si nascondeva, che mi aspettava…per ammazzarmi come ero diventato.

I passi sicuri, l’andatura eretta e decisa, le movenze eleganti e studiate senza studiare. Perfetto, tutto perfetto, troppo perfetto.

E camminare nella vita sicuro, spedito, verso la crepa che mi avrebbe permesso di rompere il guscio che mi avvolgeva, per proteggermi e che invece mi soffocava.

Una birra, e un’altra, e la musica a tutto volume.

Le poesie di Morrison, di Ian Curtis e di Anne Clark…la nota veloce di un campionatore battuto da dita nervose.

Nel bagagliaio della BMW la tastiera, la chitarra e l’amplificatore. Per correre a suonare un delirio non appena trovavo un qualsiasi compagno perduto nel deserto come me.

Tutto perché la mia certezza era non più una certezza solida, ma la sicurezza di una rottura che si era creata e che non avrei saputo riparare se prima non mi fossi affacciato sulla morte di me che era dall’altra parte del muro.

Il mondo come lo conoscevo, sino a poco prima, un giorno, un anno o un secondo prima, che si sgretolava.

L’immagine del mio piede che calpesta la strada fatta di asfalto liscio e uniforme, senza soluzione di continuità. Poi il piede che poggia su un mattone, e la terra che si apre. Il mondo fatto di un solo pezzo si rivela solo insieme di tessere. Puzzle che si sgretola, si perde una tessera, e una dietro l’altra, tutte le tessere si spargono intorno. Ne perdo il controllo, non so più dove sono finite, dove sono caduto.

E penso anche che sono contento che sia accaduto, perché solo distruggendo potrò ricostruire. Le riparazioni sono lunghe, costose e inaffidabili…prima o poi devi di nuovo ristrutturare, ed io non voglio perdere tempo a mantenere il mio mondo, che non sento mio, così come è. Non ho voglia di fingere che mi stia bene.

So che dietro questo guscio che si sta disfacendo c’è qualcuno che me lo aveva messo intorno, che mi stava controllando e adesso comincerà a temermi, perché gli sfuggirò tra le dita, come sabbia asciutta dopo secoli al sole cocente di amore asfissiante. Ho il bisogno di sentir freddo e la paura di non sopportarlo. Ma ho anche un coraggio che nessuno sospetta, il coraggio di andare nel buio e farmi strada da solo, il coraggio di farlo da solo, la certezza che chiederò alla luna, mentre rischiara il mare che guardo, di mostrarmi un profilo diverso, sul quale disegnare il mio nuovo aspetto.

Non guardo più alcuno. Il fumo azzurrino del Caffè della Luna, la musica e i volti noti di ignoti compagni di sempre…sono solo inutile contorno, accessori superflui. Distrazioni da quello che sono: semplicemente un signor nessuno!

Luigi de Gregorio


mercoledì 7 aprile 2010

Una storia tossica

Con un po di ironia, una storia vera. Torvajanica, Agosto 1987
(immoralmente scritta nell'anno 1999)

Già. Erano passati 5 anni da quando l'Italia aveva vinto i mondiali, e 3 da quando ricominciai a praticare il sesso solitario.......Non avevo internet, non avevo Mellino, non. Avevo allacciato amicizie a Torvajanica, con tutti e due i gruppi, quello dei cosidetti buoni, ovvero coloro che la sera organizzavano chitarrate in spiaggia, che andavano all'università, che affrontavano problemi sociali, che..., e con il gruppo dei cattivi, ovvero coloro che frequentavano la sala giochi del bar sul lungomare, che si facevano le canne, che parlavano di calcio, che bevevano parecchia birra, che.Era già un'anno che conoscevo Sandra e Cristiana, con i figli piccoli e senza donna al seguito ti rimorchiano le donne, tu devi fare davvero poco....Il gruppo dei buoni non vedeva di buon occhio Sandra e Cristiana, dicevano che erano due lesbiche, che.Può darsi. L'importante è il risultato, io avevo praticamente vinto 2 a 1 fuori casa, perché Paola, della squadra dei buoni diventò la mia fidanzata, e Sandra, coadiuvata da Cristiana, diventò la mia puttanella del gruppo dei cattivi, la puttanella.Il 2 Agosto servizio completo in spiaggia a mezzanotte, dietro un cucuzzolo naturale di sabbia mista ad erba, il 3 in albergo, da me, buca clamorosa, un misto di stanchezza mia e di non facile lubrificazione naturale lei, niente, non entra, arrivederci a domani, oggi non è aria, non entra, non.Fernando. Gruppo dei cattivi, lui un po' pessimo in effetti lo era, ma non con me. Ero il suo preferito per le ore che passavamo a giocare a racchettoni in spiaggia, lui era il mio preferito per giocare a racchettoni in spiaggia, era!.Si faceva una canna ogni 15 minuti, una Peroni da 3/4 ogni due ore, dicevano in giro che addirittura sniffava..Fernando e Sandra si conoscevano già da Roma, perché vivevano nello stesso stabile del quartiere Monteverde Nuovo, nello stesso.A metà Agosto la splendida idea di Sandra, la mia puttanella ufficiosa, eppoi Paola era a Londra....- Perche' non andiamo a Roma, a casa mia? L'invito lo estese a me, a Cristiana, a Fernando, lo estese.Partiamo, con la Uno di Sandra, pazza scatenata in macchina, di quelle che non capisci se è brava e spericolata oppure solo fumata... Fernando era già strano in partenza, l'avevo visto al bar bere anche del whisky, l'avevo.Il viaggio durò poco, in venti minuti si è a Roma, in trenta già a casa di Sandra, casa libera, casa vuota, nessuna rottura di scatole, i genitori erano nella casa al mare, erano.- A Ferna', e stà bbono n'attimo c...., aribbevi er whisky pure qui'? Ma che tte voi fa davvero male, stasera? C.... tuoi.....Vedo la chitarra di un fratello di Sandra, la puttanella, e inizio a strimpellare....Il tempo passa, le canne si sprecano, Fernando beve e fuma...Sandra alza il telefono e chiama qualcuno. Le chiedo chi avesse chiamato, - ragazzi fra un po' avremo una sorpresa.Ok, faccio pippa, mi piacciono le sorprese, continuo a strimpellare fumato, non so che ore siano, non so un c...., sto bene però, stranamente stò.Suonano alla porta, Sandra schizza ad aprire euforica.Erano due persone, un uomo, una donna. L'uomo non lo ricordo più oggi, a parte una catena d'oro che avrà fatto 3 etti... Lei era una mulatta stupenda, vestita di azzurrino, mezza trasparente....un'attimo che tolgo tre peli dalla lingua e........insomma una figa da paura!! Parlano un po' con Sandra, le danno qualcosa in mano, a noi ci salutano educatamente, due persone per bene, due. Vanno via, arrivederci.Sandra mi racconta poco di loro, mi dice che sono ricchi, che hanno lo yacht parcheggiato a Fiumicino... Suono e mi dico stik.....- E che c.... è, cocaina? dico.Tutti contenti loro, tutti esperti, dicevano che era quella mezza rosa, la migliore che c'è in giro. - Meicojoni urlo.Sapevo che non ci si poteva andare a rota per un tiro, sapevo e tiro su. Il tempo passa, io sono uguale a prima, non mi cambia nulla, e allora a che serve tirare su quella roba?
E' servito. A me è servito.....Fernando era sparito da troppo tempo. Prima in bagno, poi di nuovo nel salotto dove c'è il mobile bar....Sandra si alza e va a cercarlo. E' stato un'attimo. Un'urlo di cristo, Sandra torna in camera mentre urla e piange....Corro di là, lo trovo in piedi, appoggiato su una parete, con gli occhi rigirati. - C...., questo è morto!Sandra, la puttanella, sapeva come fare. Ricordo che gli tirò subito fuori la lingua, lo prese a pizze in faccia... Non era morto, ma faticava anche a respirare.Era notte fonda, lo trasciniamo sul terrazzo, aria fresca, aria fresca, c...!!- Che si fa? Io se chiamo l'ambulanza mi rovino dice Sandra.Chiamo l'ambulanza, lo portano al San Camillo, seguo in macchina, Fernando lo ricoverano d'urgenza, io e gli altri al posto di polizia dell'ospedale, a spiegare, a spiegare....- Parlo io, voi zitti, io sto tranquillo, sto bene, parlo io.Fernando si era bucato di nascosto in bagno, Fernando era gia brillo a Torvajanica, tra birre e whisky, Fernando aveva continuato a bere a Roma, Fernando aveva tirato e si era bucato....Non lo sapevamo, noi non lo sapevamo, non.- Eravamo in casa della mia amica (la puttanella, ndr) a suonare la chitarra. Fernando ci venne a trovare perché aveva sentito dei rumori nell'appartamento e credeva fossero i ladri. Gli abbiamo aperto la porta, e quando ci vide ci disse se poteva restare un po' con noi. Poi si è sentito male, eccoci qua.Me la ero inventata al volo, ha funzionato, noi siamo bravi ragazzi, noi. Fernando è salvo, gli hanno fatto la gastrica d'urgenza, io scoppio a piangere, sono stato bravo e Fernando è salvo, è.Il giorno dopo ci ritroviamo a Torvajanica. Fernando vuole giocare a racchettoni, Fernando vuole andare al bar, Fernando al bar ha bevuto acqua minerale, durante la mia presenza, durante.Oggi non so che fine abbiano fatto Fernando, Sandra e Cristiana, ma so con certezza che mi aveva fatto effetto, e che per una volta è servito a fin di bene, anche perché riflettendoci non avrei certo mantenuto quella tranquillità e fermezza, lì alla Polizia, lì.

giovedì 1 aprile 2010

Simona, che non c'è più e invece c'è ancora...







“Allevamento Conigli. Campo Scuola”…
La grafia è elegante, ordinata, ornata. Semplice, come te in fondo. C’è quella piccola aiuola, realizzata con i tronchetti di Pino che tagliavamo, come tu li volevi, delle dimensioni che pensavi fossero giuste, alti quanto necessario per contenere il terreno, nel quale hai piantato dei Ciclamini. Aprile 2005. Il Parco è pieno di Ciclamini in Primavera. Sai il nome altro che hanno qual è ? Panporcini. E sai perché ? Perché ne sono ghiotti i suini.
Tu, Ciclamino, divorato da suini…
Sono entrato nel Parco, e ti ho vista sorridere, con tutte quelle mollettine colorate, a mantenere i cento ciuffetti di capelli biondi. Gli occhi che si sforzavano di sorridere, il pozzo infinito della tua malinconia. Non tristezza, malinconia. E’ diversa la malinconia dalla tristezza. Oggi so cosa vuol dire. Non sono triste per la tua assenza. Sono malinconico. Sono pieno di quell’amore che mi hai dato e che, probabilmente, non ho saputo cogliere a fondo. Mi manca, ma sono fortunato, perché almeno io l’ho avuto. Mi incupisco, ma poi penso che noi due ci siamo capiti, ci siamo parlati, ci siamo raccontati il nostro dolore. E allora sorrido. Non ho rimpianti, ho vissuto il nostro stare insieme come potevo…come sapevo. Allora. E tu ? L’hai sentito il mio amore ? Io so che mi sei stata vicina, con discrezione. Che mi hai sollevato dagli imbarazzi, che mi hai dato le tue lacrime. Che hai raccolto le mie. Ci siamo immersi nei nostri dolori, abbiamo nuotato uno nell’altra. Coraggiosi o incoscienti, non importa. Ci siamo bagnati di noi.
Lo abbiamo fatto da soli, quando gli altri erano lontani. Erano altri. Vivevano altro. Mi vien da pensare che dovrei piangere, ma non mi escono lacrime. Addirittura mi viene da ridere ripensando a quando, con delicatezza, antitetica con la tua corpulenza, mi toglievi un concorrente dalle spalle, per agevolarmi nella mia relazione con quel ragazzo che piaceva a entrambi.
A quei caffè, al Bar dove entravamo e sentivamo mormorare qualcuno, che pensava andassimo a ubriacarci. E invece andavamo a scherzare con il barista, che era davvero bello.
A quando chiamavi “Antonietta” il nostro amico e lui si faceva rosso come un peperone…Sai, quando lo vedo lo chiamo ancora così. Adesso sorride anche lui.
Abbiamo avuto poco tempo per stare insieme, troppo poco. Ma abbiamo saputo giocare, liberi di essere ciò che eravamo…Ti ricordi quando hai rubato le monete dalla ciotola della signora del Parco? Ora ho capito. Ti riconoscevano solo se continuavi a essere una ladra, una tossica, una perdente perduta per sempre…E tu, dolce come neanche il miele che producevamo, li accontentavi. Forse sperando che ti riconoscessero… il diritto di essere quella bimba, bionda e bella che eri.
Scusa se ho lottato meno di quanto avrei forse potuto. Certo ricordi quanto ho pregato, uno dei suini, di lasciarti con noi. L’ho chiesto come favore personale. Mi hanno accontentato, e poi hanno fatto di tutto per farmi sentire in errore.
Eri persa in un bosco, e urlavi, e camminavi cercando una strada. E tutti, forse io compreso, non abbiamo saputo fare altro che urlare a nostra volta, chiedendoti di seguire le nostre voci. Che erano tante, troppe. E provenienti da direzioni diverse. Avremmo dovuto dirti di fermarti dove eri, avremmo dovuto venire noi da te. Non ne siamo stati capaci. Io non ne ho avuto il coraggio. Scusa.
E scusami anche per non aver avuto il coraggio di allontanarmi dal parco. Sai ci penso spesso. A te, a Sasà, ad Antonio, a Biagio…Chissà, forse se io fossi andato via non vi avrebbero abbandonato. Pur di tenermi avrebbero acconsentito alle mie richieste. Avrei dovuto ricattarli, ma pensavo che amassero voi come vi amavo io. Invece eravate solo un mezzo per far vedere che facevano qualcosa, per voi, per te...
Oggi lo farei, oggi li ricatterei.
Oggi. Ma è tardi, troppo tardi…
Sono seduto in mezzo a venti persone, al centro di uno di quei gruppi che ben conosci. Ti sto parlando e sto facendo il duro. Forse perché in fondo sono incazzato, con chi era deputato a fare qualcosa, e invece se ne è fottuto. Quelli per cui tu eri solo la “nr. 2 del Ser.T di Giugliano”. No, tu eri una persona. Che voleva essere solo una persona, solo se stessa.
Una donna bambina per sempre. Tra i Lecci e i Pini, nella aiuola di Ciclamini, sulla riva del lago. Nel mio cuore. Sei viva, per sempre. Hai avuto la forza di renderti immortale. Per me.
Il gruppo si sta avvolgendo o svolgendo, non lo so bene. Continuo a sentire la tua voce roca. Ma la sento solo io, vorrei che la sentissero tutti.
Dentro di me lo spero, con tutte le forze.
Passa un uccello, non so quale sia, ma vola basso quando ci passa sopra, e canta. Brevi squillanti note. Sei venuta a salutarmi. Vola libera, finalmente. Ti ho voluto un gran bene. Te ne vorrò sempre. Grazie per quanto mi hai dato, spero di averti dato anche io qualcosa.
Ciao Simona.

Luigi de Gregorio

...neve fresca...

...le strade di Amsterdam, la neve fresca e le mie orme...camminavo all'indietro per esser certo di seguirmi. Kalverstraat sempre piena di luce, e allora per le stradine lungo i canali, fino all'Herrengracht, nella casa che mi prestava Clara. Ormai lei viveva più che altro a Parigi, in una soffitta che affacciava su Saint Germaine en Laye, e dipingeva la sua nostalgia di casa. Una cosa senza senso secondo me, ma bellissima e ricca per come lei la viveva, drammaticamente...
Arrivato in casa, via gli stivali e scalzo sulla moquette color cobalto, l'ultima sigaretta e un sorso di Cognac. Via pantaloni e sotto il piumone, ad aspettare che venisse giorno, per sfuggire ai sogni. Che sono assassini affascinanti, che ti ammazzano disegnandoti l'impossibile.
Accanto alle scale del palazzetto signorile dove abitavo, il Museo degli ologrammi...un flash di primo mattino. Entravo e guardavo acqua inconsistente scorrere, nella luce rossastra...e poi via, lungo il canale, fino al Singel. Una colazione rapida, con succo d'arancia, pain chocolate, caffè nero...
La prima sosta al Frog, il negozio dove scovavo i vinili più improbabili...appena entrato, quela mattina, una musica straziante, dolce, un po' tragica...la colonna sonora perfetta per quella giornata.
Guardai Dig, il tizio con la cresta colorata che conoscevo da anni, che avevano messo dietro il banco del Frog appena lo avevano aperto...un punto di domanda nei miei occhi. Il suo sorriso fatto di fumo, la bocca semiaperta, "dead can dance" mi disse. Risposi di getto "yes, maybe...", sorrise ancora, o forse non aveva mai smesso dall'ultimo trip che aveva mangiato. Ero io che riuscivo a vedere se sorrideva davvero o meno, oltre la smorfia del volto..."no, Dead can Dance is the name of this band..." e mi porse la copertina. La guardai e capii che lì dentro c'era la colonna sonora dei miei viaggi. Quella che credevo di aver composto io e invece anche altri.
Avevano viaggiato gli stessi incubi?