Il ponte

Il ponte
Quadro di Enzo De Giorgi

mercoledì 10 agosto 2011

Ottavo girone dell'inferno

Il litorale a nord di Napoli, quello Domitio, era, forse, uno dei più belli d’Italia. Chilometri e chilometri di macchia mediterranea, spiagge larghe e di sabbia chiara. Gli uccelli migratori a farvi sosta nel lungo volo verso altri luoghi…Poi, negli anni Sessanta, la speculazione, selvaggia. L’appropriazione, con il placet di amministrazioni cieche, o peggio ancora, conniventi, da parte dei clan camorristici. La distruzione di un intero mondo. La nascita della generazione che avrebbe garantito redditi infiniti. Grande operazione di marketing…

Oggi quei luoghi sono il degrado. Chilometri di case fatiscenti, abitate dai fantasmi di uomini una volta liberi nelle loro terre.

La popolazione è quasi esclusivamente di origine Africana, prevalentemente Nigeriana e Senegalese. Di lingua inglese una, francese l’altra. Totalmente diverse…anche la pelle ha colori diversi. Più scura quella nigeriana, più facilmente occultabile nell’ombra della Pineta di Castelvolturno. Che è l’inferno dantesco…

Questi uomini e queste donne arrivati da lontano, con la speranza di una vita migliore, ricchi solo di disperazione e fame, sono stati, in gran parte, fagocitati da un sistema che ne ha rubato i sogni, e li ha trasformati in incubi infiniti. Che, da qualche parte, essi devono tracimare…nelle vene e nelle vite altrui.

Le donne sono state indirizzate al meretricio. La Via Domitiana è un supermarket del sesso a pagamento. L’età delle donne è bassissima, forse avranno tra i quattordici e i venticinque anni. Già rotte a tutto, aperte a ogni esperienza. Con una famiglia, spesso se non sempre, che giù in Africa le crede impiegate in un qualche lavoro. Costrette a fingere di essere felici, con i propri cari, per amore dei propri cari, per non togliersi quel poco di vita loro rimasto.

E la notte fa freddo, c’è una umidità che le infradicia. E c’è necessità di calore. E non c’è amore che possa scaldarle, solo eroina. Da iniettarsi per dimenticare il freddo. Dell’anima. Per dimenticare se stesse.

E ci sono i loro uomini, che si trasformano in spacciatori per le loro donne, e poi perché è l’unico modo per restare attaccati a una specie di vita…a una sopravvivenza. Per non dover morire ancora una volta dentro. Per non dover tornare indietro. E anch’essi si cominciano a nutrire di polvere…cocaina molto spesso. Per mantenersi attivi e non dormirsi addosso, dentro.

Questo accade all’inizio. Quando arrivano in Italia, a Napoli, e si rivolgono ai loro conterranei, di cui avevano, alla partenza dall’Africa, un recapito telefonico. Che contattano speranzosi. Che li ospitano per i primi giorni, e aprono loro gli occhi sulla realtà, da schifo, che li attende. E li consegnano, come merce, come neanche ai tempi dell’esportazione di schiavi dal Senegal verso le Americhe, a padroncini, che danno solo due opzioni. Il lavoro nei campi di pomodori, 12 ore al giorno, sotto un sole cocente, “tanto sono Africani, abituati al sole e al caldo” mi ha detto un giorno un tizio, “ i polacchi e gli est-europei in genere non vanno bene, patiscono troppo il calore, lavorano meno…”. Oppure la manovalanza nello spaccio di eroina. A tutti quei corpi che vagano e che sono disposti a tutto per una dose, che diventano anch’essi nuova manovalanza. E, morte per morte, molti scelgono la seconda opzione. Moriranno senza accorgersene tanto, senza soffrire troppo.

…e sognano dei colori degli abiti sgargianti delle loro terre, sognano le ali leggere per volare altrove, e si trasformano in carnefici inconsapevoli degli altri. Trasmettono quanto hanno ricevuto, da sempre, da che sono su questo mondo. Sofferenti per riconoscersi, loro malgrado (…) “ Demoni neri che vendono veleno, e comprano anime”(…) (N.M.). Perché solo questo possono fare, perché il loro sapere, la loro cultura, in questo mondo che va a mille all’ora, non conta niente. Non da nutrimento, da solo sofferenza. E allora meglio morire. Meglio dormire, da soli prima, insieme a chiunque altro poi. E avere qualche euro in tasca, per un pugno di riso e un po’ di latte per i figli, che cresceranno in fretta, troppo in fretta. Figli che saranno presto il loro possibile riscatto, probabilmente solo gli eredi di una esistenza negata dalla realtà.

Perché nella Terra Promessa scompari. E muori e rinasci morto. Senza nulla che ti differenzi da alcuno. Come in ogni luogo che sia ai margini della Metropoli. E il nero, il mediorientale, il sud-americano, il chiunque tu sia lascia il posto all’abitante dello spazio vuoto…

La Terra Promessa che è invece solo area dove sdoganarsi, dove acquisire la “carta verde” per ottenere la cittadinanza del nuovo mondo. Condivisibile, dove non ci sono lingue diverse, non ci sono colori di pelle diversi, sessi diversi. Solo dolori unici. Rimpianti e rimorsi che creano idioma dell’anima.

Un enorme Slum, il “Central Park” di una megalopoli che si estende intorno alle metropoli di un tempo. Intorno a Napoli, Londra, Parigi . In Europa come nelle Americhe o in Africa. Gli “slum” che sono divenuti il vero centro della vita. E fra gli “slum” le grandi città. Che diventano cellule, poche, presunte “sane” in mezzo a un enorme organismo malato. Così tanto malato, cosi tanto diffuso, da non far sentire più la devianza come devianza. Da far divenire deviante il non-deviante. Da far sentire drop-out coloro i quali non vi accedono. Perché memori di una cultura propria, antica.

Che è identità, ma anche paradossale emarginazione. E allora le droghe, qualunque esse siano, che funzionano da “traduttori simultanei” tra le razze. E allora il transculturalismo della assunzione delle sostanze stupefacenti non è il vero problema da affrontare. E solo il sintomo della malattia del “mostro” sfuggito al controllo. La società, novella Frankenstein, a cui è sfuggito il controllo della creatura, che si interroga sull’errore commesso, che continua a commetterne cercando cure. Solo per i sintomi, le cause…quelle no! Significherebbe doversi mettere in discussione, ammettere le proprie responsabilità, il proprio fallimento…

Le droghe, la cocaina, l’eroina, le droghe sintetiche, sono solo l’emergenza della patologia della società. Ma una emergenza dovrebbe servire a evidenziare una sofferenza, un patimento, e indurre a lavorare per comprenderne le origini e tentare una soluzione. E la soluzione forse è nel recupero della relazione scevra da contaminazione di sapere accademico, libera da paradigmi e fasulle appartenenze a aristocrazie del pensiero. Solo un Uomo accanto a un altro Uomo. Pelle contro pelle, anima insieme ad anima. Dolore con dolore. Relazione che mette da parte, “tra parentesi” quanto si sa già, che prescinde da ciò che sarà “dopo”. Relazione che avviene in quel momento, in quel luogo, in un modo che è unico e irripetibile. Che se lo si prova a realizzare nuovamente, come si è realizzato prima, lo si rende sterile e inefficace.

I “dotti” del mondo mettono tra sé e gli interlocutori la propria scienza, il proprio sapere, e filtrano le emozioni che l’altro sta emanando, e castrano, cercando un linguaggio “adeguato”, le proprie. Nasce la distorsione che genera incomprensione.

Nella periferia del mondo, che periferia più non è, l’immigrato, il proveniente da altrove, grazie all’uso di droghe, annulla la malattia, annulla il suo idioma, abbatte la barriere, e parla, si racconta. E se ne frega di ascoltare l’altro.

Una caratteristica di chi si fa è proprio la logorrea, e l’assoluta ignoranza di quanto l’altro sta dicendo. Ci si parla addosso…In realtà ci si esprime, annullando il sentimento di frustrazione che, nella società “civile”, si sperimenta accorgendosi di non essere ascoltati. Di essere sempre e comunque “consigliati” da qualcuno che si professa detentore della verità, possessore della panacea per ogni male. La vera panacea sarebbe, forse, il mettersi in gioco, il rinunciarsi , ma non lo fa nessuno. E allora una droga, un tappo per le orecchie, e chi se ne frega di cosa sta dicendo quello di fronte a me. Intanto io parlo, urlo, piango o rido. Mi scopo la ragazzina prona sul tronco di un Pino, le do un po’ di quanto ho, polvere, e lei mi da un po’ di quanto ha. Una vagina secca, che non piange neanche più.

E allora chi è che sta male? Chi è il vero malato? Sarà di certo il tossico, che viene definito paziente…inteso come colui che patisce, che io intendo come colui che ha pazienza. Che aspetta, da sempre e per sempre, che qualcuno gli vada a dire “ti ascolto, non voglio darti risposte, sono qui per imparare la tua lingua, per riscoprire che, in fondo, sotto tutta lo sterco di cui ci siamo ricoperti, tutti, c’è un uomo insieme a un altro uomo. Ti ascolto!”.

E allora il transculturalismo da realizzare è quello dell’anima, della relazione che diviene cura, intesa come crescita, attenzione all’altro, nel momento in cui si realizza. Che può essere tale solo se nessuno degli uomini che si incontrano si ritiene colui che sa e deve dire. Dentro a una stanza, in mezzo a un bosco, a terra sotto un tavolo, scalzi o nudi. Uomini. Veri. Di nuovo l’origine, la tribù riunita dinanzi al fuoco, a raccontarsi, nei tempi e nei modi che le sono propri.

Gli uomini sono alla ricerca della tribù. E chi è stato rimosso dalla sua, si incontra in giro per il margine della vita. E si inventa, essendo stato privato delle radici, un nuovo modo di essere e esserci con l’altro. In superficie, tacitando la voce dell’appartenenza che gli grida dentro. Rinnegandosi pubblicamente per piangere da solo nelle notti in bianco.

Per esplodere, prima o poi. Sempre più prima che poi, in atti incomprensibili solo per chi non vuole comprendere. Incomprensibili solo per chi, codardo, rifiuta di doversi mettere in discussione. Per chi rifiuta di abbandonare paradigmi che gli garantiscono l’esercizio di un potere impotente, funzionale solo al perimento dentro parole vuote e improduttive. Per chi preferisce una sveltina con se stesso o con una puttana che “lo fa per denaro” anziché ri-apprendere il meraviglioso gioco della conquista dell’altro attraverso la donazione di sé.

Luigi de Gregorio

1 commento:

  1. Condivido appieno il tuo scritto...
    Soprattutto apprezzo quando trovo voci "contro" ogni facile e superficiale moralismo, vissuto magari non solo da "esterno", ma da una "comoda" o privilegiata posizione sociale...mi chiedo sempre con immane meraviglia, quanto perdio i più fanno fatica alla semplice e intuitiva autoimmedesimazione, prima di esprimere un giudizio, a maggior ragione verso qualsivoglia (e non sono pochi...) diseredati ed emarginati della terra, che in questo gioco al massacro che è il cosiddetto "modello vincente" aumenteranno a dismisura e nel quale anche noi stessi possiamo da un giorno all'altro ritrovarci...

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